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 LA SERIE DESTABILIZZATA. DESIGN COME PROGETTO CULTURALE ED EDUCATIVO
 Intervista a Gabriele Pezzini

Gabriele Pezzini, nasce a Charleroi (Belgio) nel 1963, la sua formazione artistica – Istituto d'Arte e poi ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) di Firenze –, lo avvicinano costantemente alla sperimentazione. Interessato alle problematiche dell'industrializzazione, nel 1991 si integra al team internazionale di designers dell'azienda francese Allibert e per la stessa in seguito diviene design manager fino al 1997. Nel 1999 apre il suo studio a Milano, torna a lavorare su progetti di ricerca, e si dedica per numerosi anni alla concezione e organizzazione di esposizioni che gli permettono di approfondire le sue analisi e teorie sulla percezione e contaminazione degli oggetti sulla nostra vita quotidiana. Collabora con aziende italiane ed internazionali ed ha svolto corsi d'insegnamento presso varie università. Dal 2006 è consulente per il dipartimento innovazione della maison Hermès e, recentemente, è stato nominato direttore del design per l'insieme del gruppo Hermès.


Sei, probabilmente, uno degli autori più emblematicamente segnati dal nomadismo, condizione che, desiderata o subìta, sembra caratterizzare la storia di sempre più autori e prodotti del nuovo design italiano. Belga di nascita, hai studiato a Firenze e, pur vivendo a San Benedetto del Tronto, hai uno studio a Milano. Parlando della tua formazione a Firenze, cosa ricordi del periodo ISIA? Innanzitutto come sei entrato, e cosa ti ha fatto pensare che fosse quella la scuola giusta?
Di quel periodo a Firenze ho un bel ricordo. Penso di essere arrivato all'ISIA al momento del suo apice, c'era una voglia di fare incredibile, persone interessanti tra gli studenti e i docenti, non aspettavo altro che questo.
In realtà io non sapevo nemmeno cosa era il design. Venivo dalla fotografia, volevo fare cinematografia. Non mi andava di specializzarmi veramente, così come non mi andava di fare l'accademia. Quella che cercavo era una scuola con un approccio diverso, e sono stato fortunato perché ho trovato l'ISIA di Firenze, che, in quegli anni, era diversa dalle altre scuole.
Per chi veniva dall'Istituto d'Arte, L'ISIA era un mito riservato ai più bravi. Avevo escluso a priori di sostenere l'esame di ammissione, ma un giorno – il giorno giusto – ho incontrato un mio caro cugino che studiava architettura a Firenze. Parlando con lui delle possibili strade mi disse di provare all'ISIA: poteva essere quello che cercavo. Timoroso ho provato, mi sono preparato per un mese, ho sostenuto l'esame di ammissione e, con mia grande sorpresa, mi hanno preso. Chiamai due volte pensando che sicuramente dovevano essersi sbagliati.
Quando il corso è iniziato ho capito da subito che era quello che cercavo: l'approccio riflessivo sul perché delle cose, l'indagare le molteplici possibilità, l'interessarsi più alle connessioni che al punto di partenza o di arrivo... Approcci che per me sono validi tuttora.

Ne Il design che prima non c'era, Renato De Fusco rileva nel tuo lavoro una «ammirevole coerenza stilistica minimalista». Per trovare un difetto ai tuoi progetti, – sempre molto tesi, intelligenti, di grande forza e coesione – si potrebbe dire che condividono con i romanzi di Simenon – altro belga trapiantato altrove – non solo l'asciutta espressività ma anche un'amara tonalità di fondo...
Devo dire che i miei prodotti sono il risultato di un filtro a maglia stretta che ho tessuto con esperienze a 360°. Ho progettato prodotti anche per me stesso – ora inguardabili, per ingenuità, immaturità o altro –, ho sbagliato molto ma su queste basi ho costruito la mia filosofia e rigore progettuale.
In merito al nomadismo il percorso che prima hai citato è solo una piccola parte dei miei spostamenti, perché, per capire in profondità il senso del design, ho provato ad aprire uno studio a Londra, a New York, a Hong Kong e a Tokyo.
Talvolta anche esssendo perfettamente conscio che non l'avrei mai fatto... Ma ciò mi ha dato l'opportunità di approfondire la comprensione di certi sistemi, di costruire meglio una mappatura del design... E questo è l'unico modo per muoversi su di un territorio sconosciuto. Non è un caso che da due anni il mio studio sia a Parigi.

Sei, in qualche misura, uno dei testimoni delle «difficoltà» distributive dell'attuale sistema design in cui è forse più facile produrre oggetti che accedere alla distribuzione sul mercato. Durante il fuorisalone 2003 hai curato e organizzato la mostra Made In China. Il futuro della produzione. In tale occasione – l'evento era incentrato sulle opportunità offerte dalla nascente stereolitografia – ipotizzavi una evoluzione del prototipo in prodotto di serie, individuando in esso l'apertura di uno «spiraglio interessante per l'identificazione di nuove possibilità progettuali, perché rimettendo in discussione, se pur involontariamente, l'essere dell'oggetto e della sua funzionalità (...) si possono, volontariamente, rielaborare nuovi archetipi che ci permetteranno di scoprire altri meccanismi emozionali che s'instaurano tra noi e l'oggetto». A distanza di un quinquennio da quelle considerazioni, il destino dei tuoi prodotti sembra sempre più affidato ad aziende – Viabizzuno, Maxdesign, Hermès, ecc. – forse non coinvolte con grandissime quantità ma in grado di puntare sul prestigio e la «durata» di un prodotto frutto dell'onesta ricerca intellettuale. Ritieni davvero impossibile l'intreccio fra grandissima distribuzione – Ikea per intenderci – e l'elaborazione di nuovi archetipi?
La realtà è molto più complessa, potremmo scriverne per pagine e pagine. Diciamo che mi sono reso conto che il sistema era saturo, e l'unico modo che ho trovato per sviluppare la mia visione era quello di occuparmi di tutto. Cosa che poi mi ha fatto capire che si trattava anche dell'unico modo per portare a compimento l'utopia del progetto.
Gli archetipi possono essere pochi, non ho mai avuto l'ambizione crearli. Sempre più concordo con la radicalità di Enzo Mari sulla giustezza del progetto. Ma il progetto ha sempre un altro padre, l'imprenditore, e se non è allineato con il progettista si vede poi nel prodotto.
Appena finiti gli studi, per fare un'esperienza, ho lavorato con la società francese per Allibert – prima come designer interno integrato a un team internazionale, poi come designer esterno e quidi come design manager. L'azienda lavora con la grossa distribuzione ed io ho, in parte, buttato via sette anni della mia vita per cercare di portare l'azienda verso la direzione giusta...
Il design di cui parliamo noi è forse troppo intellettuale e, forse, non indicato a chi si rivolge alla massa. Non dimentichiamo che un elemento del progetto è la qualità della produzione: uno sgabello di Aalto non ha niente a che vedere con uno sgabello Ikea. E questo sia in termini di qualità estetica, che funzionale e di produzione.
L'Ikea è per me la perfetta mercificazione del design come l'intendiamo oggi – con i suoi lati positivi, naturalmente.
Anche in questo caso ci sarebbero pagine e pagine da scrivere perché riconduciamo la parola «design» a un'infinità di luoghi comuni, di periodi storici, di culture diverse. Ma la parola «design» ha dei sottocomponenti precisi. Essi hanno aspetti anche molto positivi se la coscienza personale è capace di distinguere. Molti, però, non la possiedono e gli imprenditori scaltri – che oggi abbondano – hanno saputo bene utilizzare questa ignoranza.

Nel 2002 la radio Match è stata il simbolo della Biennale Design di Saint-Etienne. Parlandone oggi, possiamo riferirci ad esso non come ad un oggetto manifesto quanto piuttosto come all'ormai longevo prodotto di un autore che ha dimostrato di saper affrontare con successo le problematiche disciplinari anche in una congiuntura non certo favorevole come l'attuale. Anzi questo periodo è forse il più opportuno per riproporre sotto gli occhi di tutti il valore e le potenzialità di un metodo ed un approccio rigoroso e «neo-funzionalista» che, progetto dopo progetto, ti sei, in qualche modo, ritagliato addosso.
Il vero rigore è il lavoro, e l'autocritica permanente. Quello che si produce è il risultato della nostra etica, non infallibile – perché rimaniamo degli uomini con le nostre debolezze – ma almeno chiara e ben tracciata nella nostra coscienza. Nessuno mi ha mai regalato un lavoro; ogni cosa è stata costruita e conquistata. Io non so cosa sono le crisi, le congiunture, ecc., perché ci vivo da sempre. Ma con ciò non mi riferisco necessariamente alla questione economica, quanto piuttosto alla ricerca della ragione. Ricerca che non è legata propriamente al design che utilizzo unicamente come supporto della riflessione. L'utopia è, in un certo senso, una difficile e permanente congiuntura.

Come dicevo, nel 2008 sei stato ospite della Biennale di Saint-Etienne, come hai vissuto questa occasione di riconoscimento da parte degli organizzatori della manifestazione e, più in generale, che differenze ci sono fra l'evento francese e il Salone di Milano?
E' impossibile fare alcuna compararazione tra quel che accade in una piccola cittadina come Saint-Etienne e quanto proposto da una mancata metropoli come Milano, perché sono due situazioni completamente diverse. Il Salone di Milano non ha eguali, si è costruito con il tempo un ruolo trainante nel settore e la sua storia costituisce, in parte, la storia stessa del design. Probabilmente, oggi, è arrivato ad una saturazione che non è tanto legata alla sua funzione e natura quanto piuttosto al proliferare di una produzione camuffata che ispira, ma crea confusione, che si sostiene con la comunicazione e che ha creato falsi miti. Andando cioè nella direzione opposta delle ragioni che, storicamente, hanno portato alla sua creazione. Al contrario, oggi, Saint-Etienne rappresenta la sperimentazione e la ricerca di una scuola di design con docenti e collaboratori che hanno cercato di dare il massimo supporto ai loro studenti. Essi non hanno pensato al loro profitto personale, ma soltanto a come internazionalizzare la piccola scuola di una piccola cittadina. Quello che ha dell'incredibile è che gli effetti, dopo dieci anni, ci sono stati veramente. Li ho visti nella città, nella gente. E ciò conferma una delle mie tesi: ovvero che, forse, oggi il design non è più progetto per l'industria quanto piuttosto progetto culturale ed educativo.

Talvolta anche controrrente. In molti dei tuoi progetti si avverte una, nemmeno tanto latente, nota aggressiva...
Tenacia, esattezza delle cose, rifiuto del compromesso, autosufficienza e indipendenza, visione personale... In una società dove tutto funziona con il compiacimento, chiunque viene considerato aggressivo con questo modo di porsi...

... Forse, qualcosa di programmaticamente aggressivo. Come se nell'esercizio di scavo teso a far emergere il nuovo fosse implicita anche una perdita di «innocenza». Ovvero quella modalità di conoscenza «animista» che i bambini hanno degli oggetti e che volenti e nolenti ci appartiene per la vita. Nella sua Grammatica della Fantasia, Gianni Rodari parla degli oggetti come «materiali di un'esplorazione ambigua e pluridimensionale, in cui si danno la mano conoscenza e affabulazione, esperienza e simbolizzazione»(1). Se per te, in alcuni casi, si può parlare di «rifondazione» dell'oggetto, a me pare che a questa si giunga tramite una rivalutazione del punto di vista «adulto». Progettare risulta perciò un guardare «scientificamente» gli oggetti: l'atto sorgivo che scaturisce da una ricostruita ed autonoma «filiera di senso» che non ha nulla da invidiare rispetto a quella fantastica...
L'oggetto, l'artefatto, o il manufatto, è la nostra connessione con il mondo. Gli oggetti sono strettamente legati al pensiero, essi nascono da esigenze reali dell'uomo. Indagare l'oggetto è anche indagare il nostro vedere e percepire le cose. Lo scambio tra pensiero e oggetto è permanente, in entrambi i sensi di questa relazione. S'impara molto da Lévi-Strauss, da Adorno, Baudrillard e da Barthes... Il significato, il significante e la significazione sono fondamentali nella mia riflessione progettuale, senza per forza riferirmi al prodotto.

Cercando un riferimento ad altri autori nel tuo lavoro viene subito mente l'opera di Enzo Mari. Mi piacerebbe però poter dire che anche Munari o Castiglioni hanno influenzato il tuo modo di progettare, fosse solo per la benigna umoralità che erano in grado di trasmettere sia personalmente sia attraverso i loro prodotti. Per te esistono figure di riferimento o che abbiano svolto un particolare ruolo maieutico nei tuoi primi anni di attività?
Ho subito le mie prime influenze da parte degli Archizoom, in particolare il loro contributo mi ha aiutato nella destrutturazione del progetto. Dai maestri del design ho avuto influenze tardive, nel senso che ho cominciato a guardare veramente alcune figure come Mari, Castiglioni, gli Eames, e altri – o meglio ho cominciato a guardare il loro lavoro –, nel momento in cui avevo capito qualcosa di più, e mi ero liberato da alcuni stereotipi e manierismi del design. A me piace fare da solo e anche per questo vado un po' a rilento – infatti ho ancora molto da imparare.
Poi con Enzo Mari da qualche anno ho la fortuna di essere in diretto contatto, e sono contento che gli scambi che ho con lui ci siano ora che ho già formato la mia visione personale altrimenti sarei stato completamente condizionato. Preferisco aver costruito faticosamente la mia visione piuttosto che averla assorbita rapidamente filtrata da altri. Rimango sempre abbastanza flessibile e critico per rimettere in gioco in ogni momento ogni verità.

La tua è una via non semplice al prodotto. Una poetica della «riduzione» che poco si accorda con le richieste di un mercato ultimamente più aperto e ricettivo a decorazione, drammatizzazione ed enfasi. Forse'anche per una trappola logica ed emotiva difficile da eludere in quanto, storicamente e antropologicamente, lusso e prodotti d'alta gamma non hanno immediate connessioni con l'ascetismo. Aldilà del prezzo, come può riuscire l'oggetto minimal a distinguersi, in modo convincente, e su una fascia adeguatamente ampia, da quanto reperibile nell'area discount? Forse, come ha notato ancora Renato De Fusco, la sua affinità con l'arte concettuale?
E' completamente vero. Fatico a piegarmi alle cosiddette richieste di mercato e, forse di conseguenza, non faccio molti lavori. Ma il punto non è l'oggetto minimale, l'oggetto rotondo, quadrato o decorato. Il punto è fare dei progetti che abbiano senso. Il minimalismo è uno stile, e il mio stile è la logica e la curiosità; la purezza delle forme è semmai lo strumento per liberare al meglio i nostri occhi da messaggi superflui, al fine di consentirci di essere istantaneamente nel cuore e nella logica del prodotto. Logica del prodotto che riassume armoniosamente quelle accezioni del design che generalmente identifichiamo in estetica e funzione ma che non sono sufficienti a raccontare la complessità del progetto che incarna sempre altre variabili, come il caso, l'emozione etc.
Il concetto è alla base di ogni lavoro che sia design, arte o architettura. La nostra scelta di vita si basa su un concetto, esso rimane fondamentale per ogni progetto innovativo, la specializzazione, l'esperienza, la competenza; definisce il progetto ultimo.
Oggi nella massa dei prodotti niente più si distingue, e ciò non può che offrirci una ragione in più per fare quello che riteniamo sia giusto per noi.

Eppure, più che per altri, mi sembra che per te si ponga il problema del lavoro in azienda. L'oggetto infatti – per riprendere ancora il passo rodariano – non si risolve in nuovi «patti animistici» fra utente e designer, non promette infantili bonheur, ma rivendica dignità (delineando anche una sua etica) alla pratica del produrre dell'uomo per l'uomo. Come hai già prima accennato, nel 1991 una delle tue prime significative esperienze è stata presso la francese Allibert. Un impatto con la grande serie e le sue dinamiche produttive che segue di un solo anno la tua sedia di nastro adesivo edita da Poltronova realizzata per l'evento La Prima Stanza presso la galleria MADE di Firenze di cui sei stato socio fondatore. Potresti raccontarmi qualcosa di questo passaggio e di questa transizione?
La scelta di andare in un'azienda è stato un vero e proprio sacrificio, ma sentivo disperatamente il bisogno di capire di cosa fosse veramente fatto il design. La mia formazione all'ISIA è stata concettuale, ma questo anche per attitudine e libera scelta. Appena realizzata la sedia di nastro adesivo – progetto che avrei potuto cavalcare partecipando a mostre a destra e a manca –, mi sono invece fatto un esame di coscienza su che cosa stavo facendo, quale era la vera logica del design. E come diceva Munari: «Chi ascolta dimentica, chi guarda, ricorda, chi fa impara».
Io mi sono sempre messo a confronto con il fare. Per capire è necessario fare, e così sono partito per la Francia. Ora i progetti concettuali hanno per me più senso di prima, riesco a rapportarli alla realtà e sono strumento di comprensione del progetto industriale, quando è necessario. E' questa esperienza industriale che talvolta mi permette di trasformare un concetto in un vero prodotto, ma non perché ho il controllo totale del processo produttivo, quanto piuttosto per la coscienza della concretezza della produzione.

Come hai deciso in genere – o in particolare – le tue successive collaborazioni? E' sbagliato sorprendersi se le durature collaborazioni con AreaPlus nel tuo percorso professionale sono almeno altrettanto importanti di quelle con aziende come Maxdesign o Hermès? Ovviamente non lo credo...
Le mie scelte di collaborazione sono legate alle persone che incontro. Il marchio non è per me un riferimento, ma chi c'è dietro sì: non abbandonerei mai chi mi ha dato fiducia, anche se a volte sopraggiungono dei contrasti. E' evidente che tra le aziende con le quali collaboro ci sono differenze di fondo, ma quel che le accomuna é che tutte mi hanno permesso di lavorare con la mia filosofia. E la qualità progettuale, infatti, è la stessa.

Un caso a parte, però, forse è Stripe Bench che – al contrario, ad esempio, di prodotti come la borsa in cuoio Equateur – non sembra immediatamente riconducibile ad un coerente percorso pregresso. A meno di non ipotizzare la presenza di un Pezzini ulteriore – segreto e inaccessibile –, coinvolto nella plasticità più deliberatamente scultorea ovvero con l'arte tout court come nel caso della panchina egotica Sunny Day...
Sono d'accordo con te, il progetto di Stripe Bench sembra non in linea con il mio approccio. Me lo sono domandato anch'io, e ci ho riflettuto. In realtà, però, il contrasto non è così netto come a prima vista potrebbe sembrare. Un prodotto ha diverse componenti e quella formale è presente in percentuali variabili, in questo caso ho provato ad aumentare la variabile formale per verificare il controllo che potevo avere sul resto. E l'esperimento è piuttosto ben riuscito, il punto era capire se avevo il controllo totale del progetto.

Mi piacerebbe – proprio ora che accenni al controllo totale del progetto – cercare di chiarire quale ruolo sia da attribuire all'ironia nel tuo approccio al design di prodotto. Seguendo la traccia rodariana che mi sono proposto, potrei azzardare che, nel tuo lavoro, l'ironia svolga anche il ruolo di ricompensa nei confronti della propedeutica azione di scavo e «riduzione» – e la conseguente perdita di innocenza «animista» – dell'oggetto. In almeno quattro dei tuoi progetti – Moving, Plag-in, Window, Molletta – è possibile rinvenire la proposta ludica di uno scarto tra letteralità funzionale e icona, uno «spostamento» di senso che potrebbe essere letto anche come una «restituita» sapidità dell'oggetto spogliato e asciugato di ogni fronzolo decorativo. Come riproponi tu invece questi progetti nelle tue lezioni?
Parlando in genere del mio lavoro e in particolare di questi oggetti, utilizzo la frase «guardare in diagonale». Soffermare cioè lo sguardo su qualcosa che attira la nostra attenzione senza riuscire a capire cosa ci sfugge. In questi casi quello che solitamente facciamo è inclinare la testa a destra o a sinistra per cercare un altro un punto di vista che ci aiuti a decifrarne il mistero...
In merito all'ironia che alcuni prodotti suggeriscono, la realtà è che progettualmente non l'ho mai cercata, non è mai stato il mio obiettivo. E' stata sempre una conseguenza della destabilizzazione – che invece ricerco – e che ha avuto il solo obiettivo di rimettere in discussione forme e funzioni digerite. E' stata la risultante di una piccola scoperta che ci fa pensare che forse le cose si possono vedere in altro modo, che c'è speranza nella vita, e questo ci rasserena e ci fa sorridere.

Un discorso a parte meriterebbe il bimotore EC 135, l'elicottero nato dalla partnership tra Hermès e Eurocopter di cui hai hai firmato recentemente il redesign per una speciale edizione Vip. Come hai affermato «Per ridisegnarlo, ho dovuto innanzitutto studiare a fondo quel mondo unico, così denso di significati e meccanismi... Poi ho individuato le parti che erano modificabili, perché non interferivano con il funzionamento aeronautico. Infine, ho trasformato ogni vincolo tecnico in uno spunto per trovare una nuova soluzione che ne migliorasse la funzionalità». Siamo vicini alla definizione di un metodo creativo... Quel che, però, colpisce particolarmente è il fatto che uno degli interventi più qualificanti ed apprezzati nel tuo progetto è stato il cambio di sezione imposto al pattino di atterraggio che, passando da tondo a piatto nella parte superiore tende a facilitare l'accesso a bordo. Siamo davvero molto lontani dai vari «re-design d'autore» – talvolta meri interventi di cosmesi – al quale ci ha abituati il mercato in questi anni...
Oggi tutto è re-design. Anche nel furniture e nel product-design vediamo sempre più spesso del restyling.
Credo che un vero progetto di design debba essere in grado di considerare anche gli aspetti meno evidenti, come la sicurezza – che ho aumentato all'interno nell'elicottero –, l'assemblaggio facilitato dei componenti interni, la funzionalità. In genere si pensa che la definizione di un concetto preceda temporalmente il prodotto, che accada, cioè, quando il prodotto ancora non esiste. Invece, non è assolutamente vero. Infatti, nel progetto dell'EC 135, all'inizio ho fatto completamente astrazione di ogni aspetto formale cercando di capire cosa era, come funzionava e come si passava il tempo in un elicottero. Ciò mi ha permesso di definire un concetto guida che ha disegnato l'elicottero senza veramente tenere conto dell'esistente. Quindi, gradualmente, ho integrato l'esistente. Ma l'esistente rimasto, quel che non è stato modificato, è costituito da quelle parti comuni a tutti gli elicotteri riguardanti l'aereo-dinamica e la propulsione.
In questo caso, però, non parlerei di metodo creativo, perché la variabile esperienza ha contato molto in un progetto pensato e realizzato in tempi brevissimi.
Ho definito invece un possibile metodo creativo attraverso un progetto più astratto, per il quale sto preparando un piccolo libro – alla Munari, diciamo – che forse sarà pronto per fine anno.

Anche in considerazione del recente «varo», non posso fare a meno di chiederti qualche breve considerazione sulla tua ultima fatica che ritengo ipotechi seriamente la prossima edizione del Compasso d'Oro. Tra i progetti veramente rivoluzionari che ti vedono oggi protagonista c'è infatti l'assoluta novità di WHY: primo yacht prodotto da Wally ed Hermès nonché primo yacht triangolare al mondo. Le prime presentazioni dell'imbarcazione sottolineano come il nuovo concept renda disponbili «dimensioni rivoluzionarie» ed uno spazio vitale «senza precedenti» – che include cortili, tetto apribile e piscina da 25m. Quel che però mi ha colpito al primo impatto è stata la profonda consonanza tra un progetto così colossale e un lavoro quasi-artistico come la panchina Sunny Day Bench. Innanzitutto, quindi, un'ulteriore dimostrazione della tua capacità di controllo delle varie fasi, ma anche l'avvertibile, paradossale, combinato disposto di piacere edonistico e solitudine. Quasi che l'orizzonte ultimo dell'utopia rivelasse sorprendentementi analogie con quello autarchico – orizzonte, quest'ultimo, sostenuto materialmente in WHY dalle tecnologie ecosostenibili, che vanno dall'uso di energia solare fino ad un sistema autonomo di filtrazione dell'acqua e di trattamento delle acque reflue, oltre all'utilizzo di rifiuti organici come fonti di energia supplementare.
Non so se con WHY si vincerà il Compasso d'Oro anche perché, io, già da molti anni non mando più niente a questa farsa del design, premio ormai manipolato e feticista, schiavo della comunicazione e delle potenze aziendali.
Ma parliamo del progetto, per ritrovare il buonumore e il piacere di questa professione/passione.
Confrontarsi con mondi diversi è di una complessità estrema, già soltanto per come gli esperti del settore si relazionano a te. E' in questi progetti, però, che si capisce veramente che la riflessione, l'analisi, la struttura di un concetto è fondamentale. Perché, nascendo da una visione umanista, rimette ogni specializzazione a zero, e le conoscenze tecniche diventano solo lo strumento di messa in opera del progetto: come una pressa a iniezione che con lo stampo montato produce i suoi pezzi.
Quel che accomuna la Sunny Day Bench e il WHY 58 x 38 sono la visione di una diversa utilizzazione del prodotto che in realtà mette solo in evidenza quel che tutti vorremmo fare e avere, e dove è la stessa visione che ha portato a determinare forme diverse. Un ulteriore aspetto, a completamento, è poi la concretezza in entrambi i progetti: la possibile, cioè, concreta realizzazione, che li definisce in quanto progetti veri e non virtuali.


(1)
«Che cos'è un tavolo, per un bambino di un anno, indipendentemente dagli usi che ne fanno gli adulti? È un tetto. Ci si può accucciare là sotto e sentirsi padroni di casa: di una casa su misura, non così grande e terribile come la casa dei grandi. Una sedia è interessante perché si può spingerla qua e là, per misurare la propria forza, la si può rovesciare e trascinare, attraversarla in più sensi. Si può picchiarla, se malignamente ti da una botta in testa: «brutta sedia!»
II tavolo e la sedia, che per noi sono oggetti consumati e quasi invisibili, di cui ci serviamo automaticamente, sono a lungo per il bambino materiali di un'esplorazione ambigua e pluridimensionale, in cui si danno la mano conoscenza e affabulazione, esperienza e simbolizzazione. Mentre impara a conoscerne la superficie, il bambino non cessa di giocare con essi, di formulare ipotesi sul loro conto. Dei dati positivi che immagazzina, non cessa di fare un uso fantastico. Così, fa parte del suo sapere la nozione che aprendo il rubinetto si fa scorrere l'acqua: ma questo non gli impedisce di credere, se del caso, che «dall'altra parte» ci sia un «signore» che mette l'acqua nel tubo, perché possa poi uscire dal rubinetto.
Il "principio di contraddizione" gli è ignoto. Egli è scienziato, ma anche «animista» ("cattivo tavolo!") e "artificialista" ("c'è un signore che mette l'acqua nei tubi"). Queste caratteristiche convivono in lui per un buon numero di anni, in proporzioni mutevoli.
Dalla constatazione nasce una domanda: facciamo bene a raccontargli storie di cui sono protagonisti gli oggetti di casa o rischiamo di incoraggiarlo nel suo animismo ed artificialismo, a danno del suo spirito scientifico?»
Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino, 1985.



Gabriele Pezzini
contact@gabriele-pezzini.com
www.gabriele-pezzini.com


Gabriele Pezzini. The warrior designer
di Virginio Briatore
2008, Logos, Milano

Allibert
www.allibert.fr
AreaPlus
www.areaplus.com.hk
BalsTokyo
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Bugatti
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Do Create
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DSM Somos
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Eurocopter
www.eurocopter.com
Hermès
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Krios Italia
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Krover
www.krover.it
Maxdesign
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OLuce
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Poltronova
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Viabizzuno
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Why-yachts
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Ulteriori informazioni sul volume antologico di IdeaMagazine.net


Da maggio 2011, il testo della presente intervista è disponibile anche in versione cartacea nell'antologia Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net recentemente pubblicata da Franco Angeli nella Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale.
Compresa la presente, nel volume sono raccolte 30 interviste – pubblicate on line dal 2000 al 2010 – che offrono al lettore un interessante resoconto «fenomenologico» su tre ambiti operativi della cultura del progetto assai poco frequentati dalla «comunicazione» sul design: il «nuovo» design italiano, il progetto in Toscana, il design al femminile.

Interviste sul progetto.
Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net

Umberto Rovelli (a cura di)
Franco Angeli - Milano
Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale
1a edizione 2011 (Cod.7.8) | pp. 264
Codice ISBN 13: 9788856836714

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a cura di: 
Umberto Rovelli 


 IM Book 
Da maggio 2011 è disponibile il volume antologico «Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net» in cui è stata inserita questa intervista
I.

II.
III.

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