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 TERAPIA DI PROGETTO
 Intervista a Francesco Faccin

Francesco FaccinFrancesco Faccin nasce nel 1977 a Milano. Nel 2003, dopo aver frequentato l’Istituto Europeo di Design, lavora nello studio di Enzo Mari. Nel frattempo inizia l’attività di designer indipendente collaborando con aziende italiane e straniere. Dal 2004 in poi sviluppa progetti auto-producibili in piccola serie in stretta collaborazione con esperti artigiani. Nel 2007 partecipa per la prima volta al Salone Satellite. Nel 2009 incontra Michele De Lucchi, rimanendo al suo fianco per cinque anni. Nel 2010 partecipa al Salone Satellite insieme ad Alvaro Catalan de Ocòn vincendo il Design Report Award ed inizia a insegnare Industrial Design alla NABA di Milano, oltre a svolgere attività di docenza presso altre università in Italia e all’estero. Nel 2012 è invitato dalla ONG Liveinslums a progettare gli arredi della scuola Why Not Academy nello slum di Nairobi. L’anno successivo Faccin viene invitato alla prestigiosa American Academy di Roma, dove svolge una ricerca volta a creare una mappatura del tessuto produttivo artigianale del centro storico della capitale. Dal 2014 è Direttore Artistico della Fonderia Artistica Battaglia per la ricerca di nuovi campi di applicazione per il bronzo e il processo della cera persa. Vive e lavora a Milano.


Francesco Faccin ha lavorato nel mio studio per diversi mesi nel 2002. È molto appassionato per tutte le problematiche del progetto, in particolare per quelle che si riferiscono al legno e al lavoro artigianale. Ho avuto occasione, negli anni successivi, di verificarne più volte la determinazione unita a quel sentore di follia che è così utile a un progettista.
Enzo Mari

 Federica Capoduri:  Un incipit-referenza introduce questa prima domanda – la domanda, quella che più o meno continueranno sempre a farti –, sulla tua formazione. Puoi raccontare il peso che ha avuto – e ha, immagino – l’iniziare, intraprendere ed esercitare il ruolo di progettista con una figura di tale portata? Cosa significa insomma essere stato allievo di Enzo Mari?

 Francesco Faccin:  Ovviamente un’esperienza assolutamente fondamentale nella mia formazione. Per prima cosa diciamo che nella mia testa esiste un Enzo Mari reale – quello che ho conosciuto lavorandoci – e poi esiste il Maestro, che è quello che ho conosciuto prima e dopo averci lavorato – quello che si impara attraverso i suoi lavori, imparato sui libri. Li tengo ben separati ma faccio fatica a volte a capire quale delle due facce è stata più importante. Non l’ho ancora ben capito. L’unica cosa certa è che quando ho finito di lavorare con Mari ho deciso di lasciare il design.

 Federica Capoduri:  Certo, non deve averti fatto sconti. Sono noti i valori che lo identificano e lo rendono un Maestro: nuda serietà, schiettezza, durezza, anticonformismo… Puoi spiegare meglio?

 Francesco Faccin:  Dopo l’anno che ho fatto con Mari ero proprio certo di non avere le risorse per affrontare questo mestiere perché era stato talmente duro, talmente severo, mi aveva messo talmente tante insicurezze non solo rispetto a me stesso ma proprio rispetto al senso di fare – bene, come deve essere fatto – questo lavoro… Insomma avevo talmente tanti dubbi che mi son detto: questo mestiere non è per me, non ho la stoffa ma non ho nemmeno voglia di cercare di capire questa cosa. Niente era più chiaro. In fondo io sono sempre stato anche molto severo rispetto a questo mestiere, ma rimaneva la sensazione dei troppi contesti vaghi, dove si rischia di perdere il senso di ciò che si fa e di come si lavora, per cosa si lavora, chi è il cliente, chi è il mercato. Forse non avevo l’ottica giusta e diverse cose le ho maturate dopo, nel tempo, come ad esempio il fatto che non esistono livelli di qualità, la qualità è una sola. E quindi che tu stia facendo lo sgabello, la posata o il David l’approccio, la serietà e l’intensità devono essere veramente le stesse. Come dice Mari, quando si disegna uno sgabello bisogna farlo come se si stesse disegnando la Cappella Sistina; questo è uno dei grandi messaggi che lui è riuscito a passarmi. Tornando al lavoro, fatto sta che dopo l’anno che ho passato in studio da Mari poi per cinque anni non ho più quasi fatto design perché sono andato a lavorare con un liutaio e modellista di architettura. E il motivo per cui Mari in quella lettera di referenze scrive «è particolarmente appassionato al legno, al lavoro artigianale» è dovuto soprattutto a questa esperienza.

 Federica Capoduri:  Vuoi accennare qualcosa a proposito di questo tuo secondo insegnante?

 Francesco Faccin:  Si chiama Francesco Rivolta: un altro maestro assoluto e sofisticato che lavora in una specie di bottega rinascimentale, in una vecchia filanda fuori Milano. Lì ho imparato a lavorare e pensare con le mani, a costruire prima di progettare; eravamo io e lui da soli, lavoravamo con attenzione, con l’uso di strumenti giapponesi, nel silenzio o col sottofondo di musica classica, mesi e mesi a creare modelli architettonici in legno per grandi clienti internazionali (come Tadao Ando, Giorgio Grassi, Eduardo Soto de Moura). Ma non ho mai smesso in quel tempo di frequentare in qualche modo Enzo Mari – lui difficilmente ti chiama per farti gli auguri di Natale però se ha bisogno ti cerca, sì – e quando mi ha chiamato perché aveva bisogno di un grosso modello architettonico (in quel momento stava facendo un progetto per il comune di Gela in Sicilia) mi ha detto: «Vorrei che tu tornassi in studio per me a fare un modello» (senza sapere che io nel frattempo stavo collaborando già da un paio d’anni ormai con Rivolta) e quindi quando mi ha rivisto nella nuova veste, quella di artigiano, vero, che lavora con le mani in questa realtà molto seria, di qualità… Lui mi ha rivalutato. E dopo appunto, in maniera molto spontanea, ha scritto questa cosa per me; sono poche righe però sono state fondamentali e non perché poi io le abbia usate come lettera ma perché mi riconoscono. Mi sono riconosciuto io in quelle parole. Per la prima volta qualcuno mi aveva dato una direzione. È stato lui a dirmi che si può fare design in tanti modi, si può essere artigiano-designer, imprenditore-designer o designer-imprenditore-artigiano ecc. Insomma, in mille modi.

 Federica Capoduri:  Trovi che Mari sia un esempio vivente di questa molteplicità di approcci?

 Francesco Faccin:  Lui è stato artista, è stato precursore di tante idee che si sono poi concretizzate dieci anni dopo… e quindi ecco, questo passaggio da Mari è stato assolutamente fondamentale. Poi chissà, magari anche se non lo avessi conosciuto personalmente in ogni caso mi avrebbe influenzato profondamente. Quand’ero studente non esisteva nessun altro nella mia testa, quando finii gli studi mi dissi: l’unico posto dove penso di poter lavorare è lì, da lui, con lui, e scrissi una lettera a Enzo a mano, imbucandola e poi aspettando. Dopo due settimane mi è arrivata la telefonata. E non ho mai mandato un curriculum, non ho mai scritto una lettera a nessun altro, cioè per me c’era lui solamente.

 Federica Capoduri:  Sarai stato entusiasta quando arrivò la chiamata, ma immagino non sia stato facile successivamente.

 Francesco Faccin:  Direi di no, non facile. Soprattutto all’inizio.

 Federica Capoduri:  Cosa successe?

 Francesco Faccin:  Feci il primo colloquio e mi mandò via in malo modo dicendomi che assolutamente non ero la persona per lui. Io a malincuore mi dissi che comunque ci avevo provato, che almeno avevo messo piede nel suo studio e che l’avevo conosciuto, cosa non facile! Insomma pensavo che fosse finita lì. E invece dopo un’altra settimana mi ha richiamato.

 Federica Capoduri:  C'era stato un ripensamento?

 Francesco Faccin:  Si, Enzo ci aveva ripensato perché nella mia piccola parte di cose di design che avevo portato a fargli vedere c’erano anche delle composizioni ibride di materiali, di forme, studi compositivi – in quegli anni da studente lavoravo moltissimo con assemblaggi di oggetti diversi che trovavo, che non erano design ma che non posso neanche chiamare scultura – che lo hanno catturato. Quindi mi richiamò dicendomi: «Senta, lì ho visto qualche cosa, magari se allora viene in studio… però guardi sei mesi lavora sull’archivio». E quindi mi sono fatto sei mesi lavorando in archivio, catalogando articoli, interviste, prodotti, tutti con le sue schede, tutto a mano.

 Federica Capoduri:  Sei mesi d’archivio forzato! E gli altri sei?

 Francesco Faccin:  I primi sono andati così, gli altri sei mesi poi ho lavorato sulla sedia Mariolina per Magis, bellissimo prodotto cui sono molto legato proprio perché l’ho seguito dall’inizio alla fine, in tutto lo sviluppo.

 Federica Capoduri:  Mariolina potremmo quindi definirla il progetto simbolo della tua collaborazione con Mari  01 . Continuerei allora con un "prodotto" ritenuto da molti altrettanto emblematico: Carry On, sorta di saggio/manifesto di "resistenza" ad un sistema di esigenze avvertito come innaturale e ripetitivo – l’ennesima sedia da immettere sul mercato – e che, alludendo persuasivamente al mondo rurale, propone d’investire altrimenti le energie per progettare coscientemente, con più attenzione verso ciò di cui abbiamo veramente bisogno…

 Francesco Faccin:  Sì, bisogno o no… perché magari non abbiamo bisogno di carriole però veramente ho iniziato a pensare che in questo lavoro si possono usare gli oggetti (perché è quello che so fare io: disegnare oggetti) come veicolo di un pensiero, di un messaggio… certo non posso fare solo quello, perché poi nel mio lavoro devo fare anche dei progetti più pensati per il mercato.

 Federica Capoduri:  Certo, più reali…

 Francesco Faccin:  Esatto, più reali. Però in quel momento, cioè quando mi ha chiamato l’ennesima azienda per dirmi «Vogliamo la sedia per il Salone di lamiera metallica», io ho detto no, la sedia in lamiera non ho voglia. Poi nei giorni successivi ho avuto a che fare con una carriola per un altro lavoro e mi son detto: ma questo è un oggetto meraviglioso, l’ho sempre pensato ma non l’avevo mai sviluppato in termini di oggetto disegnabile. L’ho rivisto sotto quel punto di vista, ho richiamato l’azienda e gli ho detto: «Se volete vi faccio una carriola, quest’anno abbiamo bisogno di questo». E così abbiamo presentato Carry On.

 Federica Capoduri:  Volevi che questo oggetto suscitasse delle emozioni…

 Francesco Faccin:  Perché la carriola è l’oggetto base da lavoro, no? Con cui puoi trasportare della semplice terra ma che poi serve anche a costruire un grattacielo, cioè è una sequenza, mattone dopo mattone, carriola di cemento dopo carriola, è uno strumento basico ma assolutamente funzionale, economico, fatto di forza fisica e lavoro. Tutto questo era un modo per riportare ragionamenti su oggetti veri, su oggetti d’uso e su mestieri; il muratore, la quotidianità della gente… non la sedia che finisce sulle riviste e che poi nessuno mai comprerà perché magari è solo un oggetto più che altro bello da fotografare… anche se prima o poi ci caschiamo tutti noi designer in quel sistema, perché purtroppo questo tipo di oggetti sono richiesti e se uno ogni tanto non ne fa non riesce nemmeno ad avere quella comunicazione necessaria perché tutto il resto degli altri prodotti vada avanti.

 Federica Capoduri:  Non farlo equivarrebbe a depotenziare tutto un percorso di sviluppo professionale…

 Francesco Faccin:  Ma infatti, bisogna comunque alimentare anche quella cosa. Io non sono integralista su questo e nemmeno Mari. Lui ad esempio è sempre stato bravissimo nella comunicazione, ha sempre usato immagini forti, fotografi bravissimi… Cioè non è che adesso il fatto di comunicare le cose in un certo modo significhi necessariamente che stai vendendo l’anima al diavolo. La comunicazione va benissimo se però stai veicolando un’idea e non solo un’immagine, non solo un oggetto vuoto di significati, di senso, di simboli…

 Federica Capoduri:  Quindi Carry On è stata una personale e particolare ribellione alla condizione di un mercato sovente cieco e iper-famelico?

 Francesco Faccin:  Si certo. Ma per me anche il progetto sul tema del fuoco ha avuto un po’ lo stesso significato della carriola. Re-Fire, oggetto che è del 2013, è venuto in un mio momento di profondissima crisi di senso, che ciclicamente subisco, nei confronti di questo lavoro. Mi chiesero di disegnare un oggetto ad hoc per un evento – il festival “Tempo Italiano nell’Istituto culturale italiano” (edificio bellissimo di Gio Ponti) durante la Stockholm Design Week 2014 –, che fosse emblematico dal mio punto di vista della situazione del design. Ma senza darmi un indizio sulla tipologia di oggetto o un brief da seguire. Io non riuscivo a trovare dentro di me un senso, difficile unire alla parola emblematico un fermaporta o un vassoio per la tavola, no? Io non volevo creare un oggetto così, quasi fosse un soprammobile o un oggetto da cartoleria, da scrivania. Cioè ci doveva essere qualcosa di più profondo e di più simbolico. E anche li, dopo un paio di mesi di sofferenze intorno a questo tema la cosa continuava a girarmi in testa e l’unica parola che veramente poi mi ha aiutato nel progetto è stata “necessario”. Patrizia Coggiola, la giornalista che ha organizzato l’evento, mi aveva detto: «Cerca di pensare ad un oggetto che per te è veramente utile e necessario in questo momento storico». Due mesi a pensarci! Io dicevo: «Per me non c’è niente di necessario…» Anche perché una roba che è necessaria per me non è necessaria per gli altri… o comunque anche se volessi cercare in maniera molto presuntuosa una cosa necessaria per l’umanità non la trovo, non c’è, non esiste. E da lì ho iniziato ad andare indietro col pensiero, indietro, indietro, cercando un senso, cercando non ciò che è necessario ora ma ciò che è stato necessario in qualche modo per innescare un processo evolutivo, per l’umanità come la conosciamo ora. E nell’andare indietro e ancora indietro ovviamente poi arrivi al fuoco, per forza.

 Federica Capoduri:  A ricercare gesti primitivi, forti, chiari su cui numerosi concetti – legati al fuoco e non solo – possono farsi spazio e far riflettere…

 Francesco Faccin:  Indubbiamente a partire dal fuoco si possono fare mille riflessioni: la vita sociale, il cibo, la protezione, il calore, la casa. La casa è fuoco. Quindi questo elemento racchiude tutta una serie di simboli che alla fine quando fai il designer ritornano quasi ciclicamente: il gesto, lo strumento che serve per fare un’azione nel miglior modo possibile. Allora mi sono immaginato l’uomo primitivo che in qualunque situazione doveva poter accendere il fuoco in maniera efficiente e sicura perché altrimenti moriva di freddo, di fame, non aveva luce per muoversi. Tutti questi temi sono gli stessi che fanno parte dell’essere progettista, uniti alla necessarietà, quella proprio vera della vita e della morte… Allora è chiaro che non è possibile riportarlo su oggetti che fai oggi per un’azienda, però Re-fire è stato prima di tutto giusto e adeguato per me, perché è stato un progetto curativo, l’ho usato per mettere in ordine un po’ di cose. Per capire che è vero, ogni volta che inizi un progetto nuovo, qualunque sia il tema, ti devi ricordare veramente – e ritorniamo al discorso precedente su Enzo Mari –, che ci devi mettere, almeno nelle intenzioni, la serietà e l’intensità che ci metterebbe un grande artista, un grande architetto, un grande poeta, un grande scrittore. È un dovere che abbiamo perché altrimenti stiamo solo producendo merda, e di altra merda non ce n’è bisogno, no? Perché se veramente ci credi, veramente costruisci un pensiero per cui ancor prima di iniziare, ancor prima di realizzarlo, cerchi di dare un senso profondo a quell’oggetto – e un senso profondo può essere anche la relazione che instauri con l’artigiano, con l’imprenditore, le modalità, i processi –, i risultati si vedono, ha una forza in più. Io non le voglio più fare o sentire quelle storie dove si produce e poi si butta là perché comunque bisogna arrivare di corsa al Salone, mi fanno star male, mi tolgono la passione per questo lavoro. Re-Fire è stato una mia terapia per ritrovare l’amore in tutto questo, periodicamente ho bisogno di lavori così, per ritrovare l’energia, il senso di tutto.

 Federica Capoduri:  Riportato in patria da Stoccolma Re-fire è stato uno tra i protagonisti del Fuorisalone 2015… Come un talismano contro le migliaia di progetti senza storia che costellano la fiera (e consiglio a chi non lo ha ancora visto il tuo video sul progetto).

 Francesco Faccin:  Proprio perché è stato terapeutico l’ho voluto riproporre. Ho passato sei mesi a lavorarci, sperimentando col fuoco, andando nei boschi, raccogliendo rami, trovando l’essenza giusta. L’ho affrontato come un qualsiasi altro progetto. E mi ha fatto dire: «Va bene, allora è interessante essere progettista». Perché significa che qualunque tema stai affrontando, anche su un oggetto del tutto inutile come Re-Fire (inutile da un punto di vista pratico) mi fa sentire che ancora posso agire, che ancora ho delle competenze che posso spendere… Poi è chiaro che devi trovare qualcuno che abbia voglia di pagare quelle competenze, però intanto mi sono ricordato che le ho e le so usare. Perché purtroppo capita che ti dimentichi di averle quando hai a che fare con degli stronzi imprenditori ignoranti che non hanno capito nulla, che vogliono solo produrre altra merce che non avrà nessun futuro, che non capiscono che quella roba fatta con quelle modalità, non avrà nessuna possibilità perché non c’è amore, non c’è pensiero, non c’è simbologia… Al massimo avrai fortuna con qualche prodotto azzeccato ogni tanto ma è del tutto casuale. Quando invece le cose le fai bene, le fai con qualità, le fai con una visione, le fai con un progetto a lungo termine…

 Federica Capoduri:  La durata nel tempo fa la differenza…

 Francesco Faccin:  Sì, quando tu imprenditore ce l’hai nell’intenzione quella cosa, voglio dire di fare bene, allora la trasmetti anche al designer, la trasmetti ai tuoi colleghi, la trasmetti ai tuoi operai… Quell’energia lì è un virus e se non c’è, non c’è speranza, insomma.

 Federica Capoduri:  Credo che l’imprenditore sia da sempre una figura ambigua per un progettista perché comunque sia l'atteggiamento che il designer ha nei confronti del prodotto va ricompreso in quella più vasta e ancestrale “figura creativa” che è il genitore, il quale desidera innanzitutto tutelare il proprio oggetto/figlio. Se da un lato c'è il desiderio e la fiducia a far sì che il progetto "cresca" in azienda, d’altro canto altrettanto avvertito dal designer è il pericolo di uno stravolgimento totale del progetto originario. Non stupisce quindi che a volte si verifichino ripensamenti e rotture che sfociano in autoproduzioni cautelative, contrapposte a collaborazioni con imprenditori seri e capaci in grado di creare valore aggiunto al progetto di partenza…

 Francesco Faccin:  Assolutamente. Ma è rarissimo. E non è un caso – infatti a me dà molto, molto fastidio – quando alcuni miei colleghi della vecchia generazione (anche se sono magari giovani, ma intendo come modo di pensare) trattano l’autoproduzione come un fenomeno legato solo al fatto che ci sono più designer, che gli imprenditori sono difficilmente raggiungibili e quindi il designer è costretto a riorganizzarsi da solo. Ma c’è invece molto, molto, molto di più. Questa nuova generazione di designer sempre più numerosa che fa da sé, è una nuova generazione non di designer ma di “pensatori”: gente che attraverso l’oggetto non vuole solo vendere prodotti ma vuole raccontare storie, vuole far capire che dietro quella sedia e quella lampada ci sono storie di vita, di persone, che c’è un’idea forte alla base… E tutto questo spinge avanti il progetto da solo, no? Prendi un catalogo di tante aziende, magari hanno i due o tre prodotti di punta e poi ne hanno venti che sono lì a fare numero, che non vendono perché sono fatti per quella logica del: «bisogna presentare roba, bisogna buttare roba nel catalogo nuovo perché sennò dai l’idea che sei fermo». Questo pensiero è malato, vecchio, stupido, ignorante. Il designer autoproduttore oggi ha capito che puoi fare anche un prodotto ogni tre anni ma quando capisci a fondo il tuo prodotto, interpreti il mercato di riferimento ed è tutto più mirato, c’è meno dispersione di energia e i risultati arrivano lo stesso. Allora vorrei dire all’imprenditore che ha investito sul Salone e poco sul prodotto: ti sei mai fatto la domanda se hai ancora bisogno di essere in fiera? Magari no, magari oggi ci sono altre modalità di veicolare i progetti, magari oggi se tu quei 500.000 euro che spendi per lo stand la metà li dai in mano a un consulente – ma con le palle – che trova i tuoi mercati in maniera selettiva, va dove bisogna andare, parla con le persone che hanno in mano il mercato giusto per il tuo prodotto, ecc… Le vendite ci saranno, se non di più. La fiera è vecchia, tu che stai lì ad aspettare che passi quello giusto e lo tiri dentro. Oggi vince chi capisce che il mondo è complesso, cioè l’imprenditore alla vecchia maniera perde, si vede, cioè si sta vedendo…

 Federica Capoduri:  Si arriverà mai a un punto di saturazione tale da far riflettere su questo tema? Forse negli ultimi anni il Salone è leggermente cambiato; nel senso che è ancora la fiera per eccellenza dove vengono fagocitati dal sistema innumerevoli progetti, però è anche molto più presente un Fuorisalone intelligente fatto di professionisti che scelgono autonomamente come presentarsi…

 Francesco Faccin:  Sì, però il designer autoproduttore non ha nemmeno più bisogno del Salone perché ci sono altri canali. Intanto c’è internet che è un enorme mercato virtuale – che poi diventa reale nel momento in cui faccio click e compro –, poi ci sono gallerie, ci sono eventi più specifici legati all’autoproduzione, ecc. Questa particolare condizione è una cosa meravigliosa; l’autoproduttore oltre al prodotto vende il suo mondo, vende il suo pensiero, chi compra l’autoproduttore vuole andare a conoscerlo di persona, vuole parlarci…

 Federica Capoduri:  Forse desidera un progetto originario, puro, non deviato da strategie di mercato, dagli imprenditori, dai materiali. Cioè intende comprare l’oggetto come è stato pensato all’origine, dal suo “genitore” autentico…

 Francesco Faccin:  Certo; vuole un rapporto personale con il designer autoproduttore, perché se compra quell’oggetto non è solo perché ha bisogno di una sedia, ma perché ha bisogno di comprare quell’idea, di rendersene partecipe. Perché quando compro un oggetto di una grossa azienda, sto solo facendole fatturare di più, ma se io compro l’oggetto di un autoproduttore gli sto finanziando un altro progetto, un’altra storia, un’altra avventura, no? Diventa una via di mezzo tra essere un collezionista e un mecenate di quell’idea, di quel progetto, di quel personaggio. Perché l’approccio è molto più simile a quello dell’artista che ha una visione, cha ha una passione, che sta chiuso nel suo studio, nel suo laboratorio. Non è un caso che io adesso abbia voluto aprire uno spazio così sulla strada, perché sempre di più sento questa cosa, io voglio che il cliente che viene qua entri e venga accolto con una sensazione di apertura, non è uno studio chiuso dove tu vieni e io ti faccio semplicemente una consulenza. Ad esempio qui ci sono le signore del quartiere che passano e si fermano, fanno due chiacchiere, mi portano i dolci…

 Federica Capoduri:  Forse vorranno anche ricordare i tempi in cui qui – nel tuo attuale studio milanese di via Lomazzo – c’era una drogheria. Un primo indizio lo troviamo nell’osservare l’insegna, che tu hai scoperto mantenendole l'originale sopra l’ingresso.

 Francesco Faccin:  Davvero una piacevole e inaspettata scoperta l’insegna, che si celava sotto moderne – e proprio brutte – pubblicità. Ma tornando al discorso sulla visione d’apertura, sì, si deve per forza, non dico deliberatamente “tornare al passato” – perché non credo a questa cosa della nostalgia che prima era meglio, o era peggio… No, occorre andare verso una direzione in cui si capisca che non solo il design del prodotto ma tutti gli aspetti della vita devono essere ricondotti sempre di più a qualcosa che a che fare con delle storie vere di vita vissuta, di persone, di condivisioni. Ma si vede questo in tantissimi altri fronti, oggi molto più di prima. Ad esempio nell’ambito della ristorazione: i locali che stanno riuscendo a funzionare non sono quelli che semplicemente fanno bene da mangiare o quelli ben arredati. Sono invece quelli che riescono a raccontare il pensiero che c’è dietro, quello dello chef, quello del proprietario: che riescono a proporti una visione più completa possibile di quel mondo lì. Dove ti raccontano come e perché ha senso aderire a quel tipo di pensiero. Da parte del consumatore però si richiede – ed è questa la cosa difficile – di fare uno sforzo per entrare dentro a tutte queste storie, di capirle, di studiarsele, di appassionarsi tanto quanto chi te le propone. E così tu cliente diventi partecipe di quella cosa, non sei solo un fruitore. L’approccio dove non sai niente di un prodotto, qualunque esso sia, secondo me interessa poco, sta sparendo e anzi, è giusto che sparisca.

 Federica Capoduri:  Hai oggetti di autoproduzione?

 Francesco Faccin:  Negli anni in cui ho lavorato con il liutaio e modellista in realtà mi sono autoprodotto tante cose, in piccole produzioni di venti/trenta/cinquanta pezzi, come il tavolino
Binario  02  – poi entrato in produzione con Valsecchi – o la lampada Piélettrico – del 2008, creata insieme con Alvaro Catalan de Ocon – che ha un principio abbastanza innovativo. Abbiamo fatto il giro del mondo con questa lampada per presentarla alle migliori aziende – anche se poi non l’ha acquisita nessuno – e ne abbiamo prodotte una decina con l’approccio dell’autoproduzione, cioè abbiamo risolto tecnicamente in tutto e per tutto il prodotto. Autoprodurre non è semplicemente fare il prototipino. Bisogna imparare ad andare dentro ai progetti, capirli, svilupparli, risolverli, che è una modalità che non appartiene al vecchio modo di fare design; dove il designer arrivava e l’industria risolveva. Adesso è esattamente il contrario: l’imprenditore è ignorante, l’imprenditore vuole soluzioni e non vuole problemi, non vuole che tu gli proponi delle cose vaghe. Non tutte le aziende sono così ovviamente, ci sono anche quelle che ancora amano sviluppare dei concept, però la maggior parte non ha più uffici tecnici interni competenti come anni fa. Un esempio storico? Basti pensare alla Tolomeo di Michele De Lucchi che è co-firmata con Giancarlo Fassina, che era il responsabile dell’ufficio tecnico di Artemide. Firmare oggi un prodotto con quello dell’ufficio tecnico aziendale è quasi impensabile. Nessuna figura interna passa più anni a smazzarsi lavori d’ingegnerizzazione, prototipi ecc. Nella situazione attuale se un progettista pensa di fare così con un’azienda parte già male.

 Federica Capoduri:  Autoproduzione quindi come progetto, studio di fattibilità, compatibilità dei materiali, varie competenze messe in gioco: un lavoro pensato, ma soprattutto “elaborato” al 100%. Fra i tuoi progetti, uno che racchiude tutto ciò mi sembra Honey factory: una sorta di “fuori scala” presentato al Salone Satellite 2015…

 Francesco Faccin:  Questo è un altro progetto che esce un po’ dalle righe. Marva Griffin – inventrice del Salone Satellite – organizza sempre qualcosa da vedere nelle piazze all’interno del Salone: vengono allestiti dei progetti di architetti e designer che su invito interpretano un preciso tema. Nel 2015 il tema era lo stesso dell’Expo: «Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita». Quando nel 2014 mi hanno chiamato per partecipare a questa iniziativa – sono stato chiamato un anno prima di Expo – mi hanno dato un brief nebuloso: fai quello che ti viene in mente, valuta tu in base alle tue idee sull’argomento. All'epoca stavo vagamente lavorando con le api per una ONG di Haiti che stava avviando un progetto di auto-sussistenza alimentare per far nascere una produzione di grandi quantità. E così dal pensiero del miele è nata anche l’idea della Honey factory; d’altra parte il lavoro delle api mi ha sempre affascinato, perché è un modo assolutamente incredibile di produrre cibo in maniera perpetua, gratis.

 Federica Capoduri:  Ancora una volta dal produttore al consumatore senza bisogno di ritocchi, un prodotto puro…

 Francesco Faccin:  Esatto, ed è un prodotto sterile – che in quegli ambienti molto caldi, dove ci sono malattie, problemi di conservazione e non c’è corrente elettrica è l’ideale. Insomma per tutta una serie di motivi mi era sembrato interessante lavorare con le api in quei contesti. Poi, al di là di queste validissime considerazioni, c’era comunque un tema, forse ancora più profondo e complesso, di formazione, da sviluppare all’interno di una scuola, con l’esplicito intento di avviare e formare le persone ad un mestiere come l’apicoltura.

 Federica Capoduri:  Forse anche per tramandare un mestiere…

 Francesco Faccin:  Tramandare sì, imparare a fare delle cose per poi insegnarle ad altri. Soprattutto perché dietro c’è una tecnica, puoi creare una microeconomia intorno all’apicoltura. Anche qui torna il tema del “ruolo” del designer: oggi, molto più di prima, il designer deve pensare non tanto al “prodotto” quanto piuttosto al “sistema”, alla filiera, al fatto che il prodotto che sta disegnando va inserito in un contesto ampio. Non si tratta semplicemente di disegnare le cose da vendere, ci deve essere un dialogo aperto col committente per capire come, “cosa è” quel prodotto, qual è il suo mercato, chi sono gli utenti finali, qual è il costo, cosa sta succedendo nel mondo nello stesso campo, chi sta facendo cose simili ecc. Insomma bisogna farsi tante domande che siano utili ad avere veramente una visione completa. Quindi, tornando al progetto Honey factory – che era capitato in quel momento –, mi sono detto: «Lavoriamo sulle api». Chiaramente riportandolo su un contesto nostro. E ricercando ho scoperto un sacco di casi di apicoltura urbana che si stanno sviluppando nel mondo: a Berlino, Londra, New York.

 Federica Capoduri:  Anche a Milano?

 Francesco Faccin:  Anche qui a Milano; qualcosa di apicoltura urbana, però in maniera un po’ diversa rispetto a Londra e Berlino. Perché lì esistono dei collettivi di apicoltori che installano delle arnie sui tetti delle case per produzione di miele, ma anche e soprattutto per riportare le api in città, per riequilibrare l’ecosistema urbano, per l’impollinazione del verde della città. A Torino c’è Urbees, che è un collettivo ormai molto noto anche a livello internazionale che sta facendo un ottimo lavoro ma per la produzione di miele. A Milano c’è Mauro Veca che è un apicoltore e imprenditore agricolo urbano che produce e vende miele; ha un’azienda e vive di quello. Quindi analizzando tutti questi progetti di apicoltura urbana, la prima cosa che ho notato – e che non si può non notare – è che tutti questi progetti sono pensati per essere messi lontani dalle persone, cioè sono arnie più o meno tradizionali che vengono messe sui tetti, vengono messe dentro a parchi pubblici (come a Londra) ma in zone recintate, in zone comunque non accessibili alle persone. E da li è iniziato il mio progetto. Durante le ricerche però ho visto che c’è tantissima diffidenza nei confronti degli insetti, delle api. Io non sono allergico, non ho problemi a prendere un’ape in mano, non avevo problemi prima e tantomeno adesso che sono anni che ci studio sopra. Però ho visto che ci sono tantissime persone che non si fidano, che se dici: «Portiamo le api in città», sembra quasi che tu dica di portare gli orsi grizzly liberi e selvaggi… Come se le api potessero costituire un problema serio per l’ordine pubblico. Quindi ho pensato che la prima cosa da fare era avvicinare fisicamente le persone alle api. Per fare questo però devi portare un’arnia a livello strada, al livello delle persone, perché sia possibile osservarle veramente. Voglio dire che sì, in teoria a Milano hanno messo le arnie sui tetti, ma…

 Federica Capoduri:  Ma si tratta di una realtà, un fatto che non viene autenticamente percepito e acquisito dalle persone…

 Francesco Faccin:  Esatto, restano tutte cose in teoria. Poi come fa un bambino a vedere come è fatto dentro un alveare? Come fa a vedere l’ape regina quant’è più grande? Quindi tutto è nato proprio dall’approccio che tu hai con l’arnia; ho iniziato a disegnare in maniera totalmente casuale e senza ancora avere un rapporto con un apicoltore professionista. La mia idea iniziale di come dovesse essere questo oggetto era molto diversa, era molto più grande, era una piccola architettura (con dietro addirittura anche un laboratorio) che mano a mano si è ridotta per vari motivi, anche di costi e trasportabilità. Ma fondamentale per la progettazione è stato l’aver capito che la cosa che fa arrabbiare di più le api in assoluto è quella di ostacolare il loro arrivo al predellino di volo dell’arnia. Lì diventano pericolose perché sentono un impedimento e scatta il meccanismo di protezione delle larve e dell’ape regina. Una volta acquisita questa conoscenza, è stato banalissimo definire il progetto; è bastato spostare l’ingresso delle api in alto, in modo che loro possano continuamente entrare e uscire indisturbate.

 Federica Capoduri:  E a loro volta senza disturbare nessuno…

 Francesco Faccin:  Infatti. Ma a parte che nei risultati della mia ricerca, questa cosa era del tutto nella mia testa, teorica, nessuno mi aveva detto niente in merito e non avevo modo di comprovarla. Fino a quando ho scoperto che a Milano c’era Mauro Veca – l’imprenditore prima citato – il quale, quando gli ho raccontato il progetto, subito se n'è innamorato. Altri apicoltori mi avevano invece dato del pazzo: «Tu non ti rendi conto, non si può giocare così con le api, l’apicoltura è una cosa seria». Due o tre mi hanno liquidato così molto bruscamente ed ero anche un po’ demoralizzato. Ma alla fine, fortunatamente, ho trovato Mauro – che faceva già didattica nelle scuole, legato al patrocinio del comune di Milano grazie a una particolare patente di fattoria didattica – che mi ha detto: «Fantastico, io con questo oggetto posso fare didattica e in linea teorica possiamo mettere questa cosa anche in piazza del Duomo. Prima invece come facevo a far vedere il mio lavoro e a portare un bambino sul tetto di una casa per vedere le api da vicino? Proviamoci!».

 Federica Capoduri:  Quindi grazie a Honey Factory oltre alla teoria c’era in più la possibilità della visione pratica…

 Francesco Faccin:  Esatto, ci siamo detti: «Proviamo e vediamo se funziona». Così sono riuscito a portare Honey factory in Triennale qui a Milano ma non senza grandi sforzi, ritrosie e preoccupazioni: «Ma no, ma poi pungono i bambini, i visitatori, poi ci fanno causa…» invece poi Silvana Annicchiarico – la direttrice – ci ha creduto e abbiamo fatto un sacco di eventi legati alla didattica, dimostrazioni, decine e decine di bambini con Mauro che gli metteva le api in mano… Sei mesi che è stata li e non è stato punto nessun adulto o bambino! Abbiamo testato che è un prodotto che funziona. Purtroppo però dall’Italia nessuno mi ha considerato o contattato per questo progetto. In compenso mi ha chiamato e invitato il comune di Seul, forse partirà un progetto con un gruppo di loro apicoltori.

 Federica Capoduri:  Con l'Expo proprio a Milano, poteva essere l’occasione buona per incentivare – noi italiani – questo tema…

 Francesco Faccin:  Eh, sì. Ma in Italia di solito funziona che ti rivalutano quando le cose le vedono all’estero. Chissà, magari a scoppio ritardato qualcosa succede…

 Federica Capoduri:  Dopo l’esperienza in Triennale, il progetto Honey Factory cosa farà, dove andrà?

 Francesco Faccin:  Sarà trasferita in Parco Sempione, dentro una cascina sempre di proprietà del Comune di Milano. Si trova sotto la torre Branca di Gio Ponti –, si chiama Cascina nascosta ed è una costruzione dei primi del ‘900 che ora verrà riaperta dopo anni di semi-abbandono. Grazie a un bando è stata data a Legambiente e a privati che si occuperanno di un ristorante, poi ci sarà anche un negozio per la vendita di piante prodotte nel carcere di Bollate. Sarà un misto di associazioni e privati che gestiranno questo spazio dove a noi è stato proposto di fare apicoltura urbana. Quindi la dobbiamo solo spostare di pochi metri e poi rimarrà lì in pianta stabile.

 Federica Capoduri:  Questa vicinanza è voluta anche per non stravolgere la vita delle api?

 Francesco Faccin:  No, in verità le abbiamo già tolte perché la famiglia di api che abitava lì s'è indebolita e ammalata. Si è presa un fungo terribile che gira in tutti gli alveari – e l’apicoltore l’ha tolta per curarla e seguirla bene da vicino, tutti i giorni. Quindi adesso l’arnia è vuota. Comunque anche solo di pochi metri non potevamo spostare Honey factory con le api, perché per loro è troppo stressante. Meglio dunque toglierle e rimetterle la stagione successiva.

 Federica Capoduri:  Insomma che la Natura e i suoi materiali vitali siano parte integrante del tuo lavoro, ormai è chiaro. Si nota anche solo guardandosi attorno nel tuo studio: moltissimo legno, soprattutto per progetti “a secco”: definizione che si basa sull’unire i vari componenti solo attraverso giochi d’incastri…

 Francesco Faccin:  Cerco sempre di disegnare oggetti in cui l’elemento strutturale, meccanico – e quindi necessario – sia anche l’elemento forte e “decorativo”. Mi appartiene molto. Capire in che modo l’oggetto stesso possa vivere e stare in piedi, ma allo stesso tempo trasformare l’incastro necessario in un dettaglio estetico e funzionale. La sfida sta nel rendere complementari gli elementi della composizione formale che sta alla base. Come esempio calzante di questo principio – oltre al tavolino Binario già citato – c’è indubbiamente il tavolo Traverso prodotto da Valsecchi 1918.

 Federica Capoduri:  E che si aggiudicò la Menzione d’Onore al XXIII Compasso d’Oro ADI.

 Francesco Faccin:  Traverso parte senza dubbio dal tavolo Frate di Enzo Mari. Ho esasperato l’idea della trave come elemento chiave; ho cercato di trasformare la trave centrale in “colonna vertebrale” del progetto, dove senza di essa il tavolo non esiste. Di testa si legge chiaramente la sezione che è insieme decorativa ma assolutamente strutturale. Ma oltre a questo progetto, in termini di “idee a secco” penso anche alla sedie Piccola – prodotta da Slow Wood – e alla famiglia di sedute Pelleossa per l’azienda veneta Miniforms.

 Federica Capoduri:  Miniforms, certo. Conosco l’azienda perché tra i suoi progettisti all’attivo c’è un gruppo fiorentino – E-ggs – con cui ho condiviso esperienze e studi di design. In quest’azienda assistiamo al fare serialità di pezzi con progetti di giovani italiani e stranieri…

 Francesco Faccin:  Fortunatamente sì. D’altra parte la serialità è necessaria al nostro mestiere; l’artigianalità va bene ma non è tutto. Come l’autoproduzione di cui parlavamo prima. In Italia abbiamo moltissime risorse, sia in termini di idee che di aziende, e sono fiducioso della loro evoluzione, anche in settori non proprio canonici. Ad esempio da un po’ di tempo sono riuscito a lavorare bene anche in un ambito non proprio usuale del design.

 Federica Capoduri:  Ti riferisci alla tua collaborazione con la Fonderia Artistica Battaglia, immagino. Per loro non solo ricopri il ruolo di progettista ma ne segui anche la direzione artistica e creativa… In questo particolare caso il tuo ruolo – nella triade cliente, azienda, progettista – risulta essere quasi indefinito, amalgamato com'è tra idea e produzione…

 Francesco Faccin:  Si, Matteo Visconti, titolare/rappresentante della storica e aristocratica famiglia milanese proprietaria della fonderia, mi ha chiamato un paio di anni fa dicendomi che volevano fare qualcosa con il bronzo e il design; loro sono una fonderia artistica che ha cento anni di storia. Da sempre lavorano con gli artisti che fondono arte in bronzo a cera persa, però questo è un mercato che sta via via scemando, quindi occorre aprirsi ad altre strade. Nel campo del Design-art hanno intravisto che potrebbe esserci un mercato possibile, però non avendone esperienza cercavano una persona del settore da coinvolgere, qualcuno che potesse avvicinare la Fonderia a quel mondo. Ed è così che mi hanno chiamato e proposto la collaborazione che alla fine, dopo un grande lavoro di studio, ha visto nascere un progetto complesso ma semplice allo stesso tempo. Nel senso che loro continuano ad essere quello che sono, ossia dei terzisti che lavorano per qualcun altro, ma che hanno comunque un qualcosa in più rispetto ad altri del loro settore. Questo progetto l’ho chiamato “Terzista editore”.

 Federica Capoduri:  Nome già di suo molto interessante, spiegaci meglio…

 Francesco Faccin:  Sostanzialmente rappresenta l’ibridazione di due figure: il terzista – che lavora per conto terzi, ha delle competenze specifiche e le mette a disposizione di chi ne ha bisogno senza discutere o entrare nel merito delle qualità progettuali del lavoro portato dal cliente – e l’editore – che invece ha una visione, sceglie il proprio cliente e investe su di lui credendo fermamente che quell’investimento ritornerà in termini di immagine e guadagni. Il principio è semplice: invitiamo dei designer, che già lavorano nell’ambito Design-gallery e che hanno già un mercato, giovani tra i 40-45 anni, non troppo famosi, ma già con un piede ben dentro al mondo delle gallerie, quindi non designer industriali. Li si invita e, incluso nel pacchetto, oltre al viaggio per venire, alla possibilità di avere uno spazio dentro la fonderia dove lavorare fisicamente, paghiamo il pernottamento per tutto il tempo necessario che serve loro a sviluppare il prototipo dell’oggetto, il campione. Quindi gli consegniamo la fusione dell’oggetto finita. Questa è di sua proprietà, può farne quello che vuole: la può fotografare, la può esporre in una mostra, la può portare dal suo gallerista o cercare una galleria disposta a venderla. E quando trova una galleria interessata, a quel punto il designer firma un contratto con noi (fonderia) ed è vincolato per dieci anni alla produzione di quel pezzo, così, di conseguenza, anche il gallerista che lo venderà avrà un rapporto esclusivo con noi. Tutto questo perché altrimenti come facciamo a invogliare un designer, ad esempio di Londra, a venire qua? Se gli dico semplicemente che noi gli facciamo un pezzo in bronzo, con tutte le spese che deve sostenere, magari rinuncia a partire. Quindi si tratta un investimento relativo per la fonderia, ma che sta già cominciando a dare i suoi primi frutti. Stiamo collaborando con Studio Formafantasma – ossia Andrea Trimarchi e Simone Farresin, due progettisti italiani ma residenti ad Amsterdam – Alvaro Catalán de Ocón e Lex Pott – che è un designer olandese. Poi abbiamo già realizzato una mia collezione; davvero niente male, come inizio.

 Federica Capoduri:  Intendi la collezione che hai mostrato durante la settimana del Salone 2016, la Serial Planks?

 Francesco Faccin:  Proprio quella; presentata in esclusiva con la galleria milanese Nilufar. Questa collezione di arredi – denominata Bronzification – è composta da sei pezzi ed è creata a partire dalla ripetizione modulare di un’asse in bronzo in diverse composizioni, replica (pesante) di un pezzo in legno di larice lungo 150 cm. Sono molto soddisfatto di questa serie che potremo definire l’archetipo, il numero zero emblematico del meccanismo design-fonderia di cui parlavamo prima. Il risultato è un progetto meraviglioso, dove ho messo la testa dentro a un mondo completamente sconosciuto: quello della fusione a cera persa. I ritmi della fusione, con le tecniche che sono ancora quelle di 2000 anni fa, fanno parte di un lavoro straordinario che è impossibile imparare a scuola. Credo che sia uno dei pochi autentici mestieri al mondo. Per fare il fonditore devi andare in fonderia, devi entrare e fare tutto il percorso, che è complesso e meticoloso in tutti i settori: la parte delle cere, la parte del cesello, la parte delle patine e delle terre, i forni… Sono tutte conoscenze talmente specifiche che se uno sa fare una cosa non potrà mai farne un’altra.

 Federica Capoduri:  E conoscerne completamente i segreti…

 Francesco Faccin:  I segreti e l’esperienza, soprattutto. Altra cosa che mi piace e che trovo in qualche modo straordinario è che la fonderia è molto vicina al mio studio, qui a Milano, in piena città. È un mondo vicino però allo stesso tempo è come se fosse sospeso in un’altra epoca. Questi sono i lavori che mi piacciono veramente, e molto, perché ci sono i tempi perché il progetto cresca, maturi. C’è il rapporto umano, non si bada più al tempo, i lavori non si quantificano più in ore. E come si potrebbe? Si passano sere, pomeriggi, ore e ore a parlare e discutere. Ma è così che vengono fuori le cose di qualità alla fine, le cose che poi rimangono.

 Federica Capoduri:  Cose fatte di passione, di fascino, di segreto, dove ti dedichi personalmente e non impieghi solo il tuo tempo a svolgere un lavoro…

 Francesco Faccin:  Dopo voglio farti vedere un video, per ribadire proprio quanto dici. Poco dopo avermi consegnato il progetto fuso e finito, con grande soddisfazione ed entusiasmo di tutti, Matteo Visconti – il titolare – mi dice di tornare in fonderia perché deve farmi vedere una cosa. Quindi un po’ sorpreso vado li e lui mi mette davanti un monitor e mi fa vedere un filmato di tre minuti: nei mesi che lavoravo al progetto – a mia totale insaputa – ha fatto filmare tutto il processo da un videomaker professionista e ha confezionato un film di qualità per raccontarne tutta la storia e sequenza progettuale. Questo è l’impegno di cui parlavamo prima, fatto di fiducia e passione nel proprio lavoro senza badare sempre al costo, al quanto ci vuole… Se il tuo obiettivo alla fine è quello di produrre qualità non c’è altro modo, non ci sono scorciatoie. E non è neanche una questione di soldi, perché poi la trovi la gente appassionata come te – che non dico che lavora gratis, ci mancherebbe –, che ha voglia di fare progetti sensati a costi ragionevoli. Invece la scorciatoia che usano in molti (tipo pagare cifre notevoli a grandi fotografi per scatti che poi alla minima modifica postproduzione ti costano ancora un sacco) molto spesso è quella che ti fa pagare di più. Per me questo è un segno di decadenza, proprio di una logica perversa e malata perché tu, professionista, quando entri in una dinamica di fiducia con un cliente, devi smettere poi di guardare questo tipo di cose… E se ci si riesce posso personalmente confermare che si diventa tutti più generosi.

 Federica Capoduri:  Per concludere la nostra chiacchierata, dato che abbiamo parlato di legno, metalli, fuoco, terra e acqua… stavo pensando che tra tutti gli elementi ti manca qualcosa per/nell’aria. Che ne dici?

 Francesco Faccin:  Vero. Al momento non ho nessuna cosa specifica in programma per l’aria, però mi piace questa suggestione, adesso che mi ci fai pensare. Lo spazio aria, lo spazio staccato da terra… potrebbe essere davvero uno spunto interessante su cui lavorare. Bello!


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Note al testo



 01  Come ha avuto modo di notare anche Enrico Morteo, c'è una evidente sintonia fra alcune peculiarità della seduta Mariolina e gran parte della produzione successiva progettata da Francesco Faccin.
«Come forse qualcuno ha già detto, ho il sospetto che al mondo esistano molte più sedie che sederi, anche se molti fanno ancora la fila per conquistarsi un posto comodo. Rispetto a questa moltitudine di possibilità, una sedia disegnata da Enzo Mari rappresenta una salvifica pausa. Non che a Mari non interessi il comfort ma, da uomo intelligente, sa bene che si tratta di un concetto relativo, non di un'ossessione medica da rinchiudere in standard prescrittivi. Staranno mai comodi (in senso ergonomico) i corpi dei vacanzieri, distesi per ore su scogli sconnessi? Eppure quelle ore di sole saranno rievocate per mesi, rimpiante, rivissute nelle immagini digitali di videocamere amatoriali. Il comfort è qualcosa che non può risolversi in semplici parametri fisici ma coinvolge sempre e comunque esperienza ed emozione. Sarà per questo che la forma nei disegni di Mari non si esaurisce nella sua immediata funzione, senza per questo abbandonarsi a futili svolazzi. La forma è sempre un'occasione per esplorare un concetto, per suggerire un pensiero. Mari ama le figure archetipe. Non è questione di retorica: l'architettura greca, la sezione delle putrelle a doppio T, la pittura rinascimentale sono l'essenza della nostra cultura, un patrimonio comune a cui tutti possiamo accedere. In questo senso il classico rappresenta il nostro massimo comun denominatore. Muovere da un archetipo vuol dire dunque agire su una base condivisa, sollecitare un tema in qualche modo conosciuto. Su questo terreno fertile Mari innesta la sua elaborazione, la sua trasgressione, il suo scatto in avanti, il suo talento. Mariolina non fa eccezione. L'immagine è apparentemente quella di una seggiolina anni '50, una di quelle sedie che era facile incontrare nelle sale d'aspetto degli studi medici, nelle cucine rischiarate da paralumi arancioni, nelle aule delle scuole medie, ma qualcosa non torna, c'è un dettaglio che non collima perfettamente con il ricordo. Ecco, ci sono: la sezione delle gambe metalliche è più esile, più precisa. In effetti Mariolina si regge su di un tubo d'acciaio molto più solido dei profili in ferro o in alluminio che si usavano allora. Così solida da essere già bella e omologata per l'uso in spazi pubblici ad alta sollecitazione. Ma non basta, qualche cosa ancora non quadra. Continuo ad osservare la piccola seggiola ma è come se lo sguardo scivolasse via senza trovare un punto su cui aggrapparsi. Accarezzo la seduta e lo schienale in polipropilene. Poi capisco: non ci sono viti, rivetti, nulla che interrompa la superficie della plastica. Lo schienale sembra galleggiare davanti ai due montanti e il disco della seduta fluttua sulle quattro gambe d'acciaio. Un piccolo "coup de théâtre" che si svela solo guardando Mariolina di dietro e di sotto. Si scopre allora che sulla faccia nascosta delle due parti in plastica sono state stampate delle nervature, ritmicamente forate, che abbracciano la struttura metallica. Fra il polipropilene e l'acciaio è poi inserito a pressione un elemento in nylon opportunamente sagomato e fornito di piccoli dentini che si innestano perfettamente nei fori del polipropilene. Enzo Mari distilla. Estrae dalla materia la sua intelligenza. Pensa a come le cose possono unirsi senza confondersi. Riflette sui giunti. Sfrutta elasticità e resistenza. Ci coglie di sorpresa e ci costringe a guardare. A pensare. Se vogliamo. Ma è cosi che si trasforma una umile sedia in un oggetto intelligente». Enrico Morteo, brochure aziendale Magis, 2003.
 02  «Il tavolo Binario fa parte di una ricerca più ampia, iniziata con il tavolo Centrino nel 2009 (Bolia). Sto cercando di capire in che modo si possano costruire oggetti “a secco” facendo diventare ogni parte indispensabile perché l’oggetto stesso possa vivere e stare in piedi, ma allo stesso tempo trasformare l’incastro necessario in un elemento decorativo forte. Dettagli estetici e funzionali, la sfida sta nel rendere complementari questi due elementi. E' un piccolo tavolo di servizio fatto di legni nobili che migliorano invecchiando. Quando è smontato è facilmente trasportabile e per l'assemblaggio non serve alcun utensile». Francesco Faccin (www.francescofaccin.it).





Francesco FaccinFrancesco Faccin. (Milano, 1977). Nel 2003, dopo aver frequentato l’Istituto Europeo di Design, lavora nello studio di Enzo Mari. Nel frattempo inizia l’attività di designer indipendente collaborando con aziende italiane e straniere. Dal 2004 in poi sviluppa progetti auto-producibili in piccola serie in stretta collaborazione con esperti artigiani. Nel 2007 partecipa per la prima volta al Salone Satellite. Nel 2009 incontra Michele De Lucchi, rimanendo al suo fianco per cinque anni. Nel 2010 partecipa al Salone Satellite insieme ad Alvaro Catalan de Ocòn vincendo il Design Report Award ed inizia a insegnare Industrial Design alla NABA di Milano, oltre a svolgere attività di docenza presso altre università in Italia e all’estero. Nel 2012 è invitato dalla ONG Liveinslums a progettare gli arredi della scuola Why Not Academy nello slum di Nairobi. L’anno successivo Faccin viene invitato alla prestigiosa American Academy di Roma, dove svolge una ricerca volta a creare una mappatura del tessuto produttivo artigianale del centro storico della capitale. Dal 2014 è Direttore Artistico della Fonderia Artistica Battaglia per la ricerca di nuovi campi di applicazione per il bronzo e il processo della cera persa. Vive e lavora a Milano
www.francescofaccin.it




luglio 2016 
Firenze / Milano 
testo: Federica Capoduri 

Portrait  / 2016 / © photo: Nico Tucci
I.

II.
Enzo Mari (con Francesco Faccin) / Mariolina - sedia /  1999 / for MAGIS
Francesco Faccin / Carry-on - carriola / 2013 / by OFFICINANOVE / © photo: Anna Positano - Nuvola Ravera
III.

IV.
Francesco Faccin / Re-Fire - kit per accendere il fuoco / 2014 / for STOCKHOLM FURNITURE FAIR / © photo: Delfino Sisto Legnani
Alvaro Catalan de Ocon, Francesco Faccin / Piélettrico - lampada / 2008 / PROTOTYPE</A>
V.

VI.
Francesco Faccin / Binario - tavolo [sketches] / 2011 / for VALSECCHI 1918
Francesco Faccin / Traverso - tavolo / 2012 / for VALSECCHI
VII.

VIII.
Francesco Faccin / Pelleossa chair - sedia / 2012 / by MINIFORMS / © photo: Andrea Basile
Francesco Faccin / Quadrato table - tavolo / 2006 / PROTOTYPE
IX.

X.
Francesco Faccin /  Centrino - tavolo / 2011 / by BOLIA / © photo: Sergio Bianco
Francesco Faccin / Serena - sedia / 2006 /  PROTOTIPO / © photo: Alberto Dedè
XI.

XII.
Francesco Faccin / Stratos chair - sedia / 2011 / by DANESE MILANO / © photo: Federico Villa
Francesco Faccin / Honey factory - Urban beekeeping / 2015 / for SALONE SATELLITE - TRIENNALE DI MILANO
XIII.

XIV.
Francesco Faccin / Piccola chair - sedia / 2015 / by SLOW WOOD / © photo: Delfino Sisto Legnani
Serial Planks / 2016 / for NILUFAR GALLERY / © photo: Delfino Sisto Legnani | Pietro Cocco
XV.

 




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