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 PANE E PROGETTO. IL MESTIERE DI DESIGNER


Ottima iniziativa – di cui soprattutto le giovani leve sentivano un gran bisogno – Pane e progetto. Il mestiere di designer è la raccolta di riflessioni in forma di dialogo che Stefano Follesa propone per indagare il rapporto tra formazione e mestiere di designer. Il volume, edito da FrancoAngeli, espone un gruppo di oltre 40 figure professionali che, più che delineare il profilo di un ideale «designer tipo», mira a tratteggiare una costellazione di «forme di vita» sottese a quella che è una tra le più sfuggenti ed articolate professioni contemporanee.
Anche a costo di qualche ridondanza, l'insistere di Follesa con domande mirate circa il retroterra storico-territoriale di ogni autore costituisce uno dei pregi più rilevanti del libro in quanto è proprio sulla scorta di tale ricercata ricorrenza che emergono, procedendo man mano nella lettura, alcuni minimi denominatori della «fenomenologia», davvero vasta, costituita dai diversi percorsi identitari proposti. E ciò proprio in quanto – aldilà del piacere indubbio di attingere a notizie sovente insolite e sicuramente di «prima mano» circa i primi passi e i metodi di ricerca di/da autori che definire mitici è talvolta riduttivo come Mario Bellini, Andrea Branzi, Angelo Mangiarotti – il retroterra storico-territoriale-formativo costituisce quasi sempre un elemento di conoscenza non secondario per valutare quali urgenze conducano personalità sovente molto concrete ad imbarcarsi nei meandri di una professione pressoché votata all'instabilità assoluta in perenne ricerca di novità ed innovazione.

Complessivamente il volume si pone come obiettivo di dare o proporre ragioni per un «fare» progetto che – almeno da alcuni anni – ha palesato sempre più connessioni col mondo della biologia e delle scienze umane – sovente mercificandone le intuizioni in nozioni di marketing – ed in cui la nozione di «riflessione» ha assunto tutte le sue più profonde implicazioni. Tipico dell'attuale sistema tardo capitalistico/comunicativo globalizzato è infatti l'impossibilità d'intervenire su produzione e distribuzione senza che il sistema stesso muti apprezzabilmete – sia in termini quantitativi che qualitativi – con tempi inusitati. Ciò significa, da un lato, che il contesto quasi automaticamente è in grado di rispondere produttivamente banalizzando ogni pretesa di originalità e diversità del designer, mentre, d'altro canto, sono infiniti gli spunti che i creativi possono reperire direttamente e indirettamente da un contesto incredibilmente amplificato rispetto a solo 15 anni addietro. Sistema e designer sono cioè oggi un unico insieme complesso «co-implicato» in cui è ormai molto difficile distinguere cosa dell'operato del professionista sia originato da una propria libera ricerca espressiva e creativa e cosa no.
La stessa questione del ruolo e della consistenza qualitativa di cosa e chi possa essere oggi identificato come «nuovo» e/o «innovatore» è notevolmente problematica: talvolta anche mal posta. Vuoi perché il «fare» progetto ha più nessi con la negazione che con l'affermazione personale. Vuoi perché il design è una «prassi» che mira alla condivisione, e che, talvolta privilegiando approcci «metonimici», è immersa nella concreta materialità dell'uso ed ha, presumibilmente, più obiettivi «riformatori» che «rivoluzionari», preferendo cioè lo scarto e lo slittamento rispetto all'antitesi netta. Vuoi perché – come detto –, anche le devianze e i mutamenti di traiettoria del sistema possono costituire fonte d'ispirazione: per cui ogni manovra volta ad opporvisi non determina un affrancamento quanto piuttosto conferma l'ampio spettro delle potenzialità inclusive del sistema stesso.

Ovviamente è possibile ipotizzare «scenari tipo» di questa co-implicata relazione. Dei tre scenari individuati da Follesa nell'introduzione – de-materializzazione della professione non più legata solo al prodotto ma anche ai servizi; rinnovato rapporto con artigianato e territorio; ricerca volta al rinnovamento tipologico – l'ultimo è quello che ci sembra sinceramente più interessante nei risultati. A nostro avviso, comunque, tutti concordano nell'indicare una specifica attitudine che – come notato qualche anno fa anche da Francesco Zurlo – marca profondamente la professione: la «costruzione di senso». «Motivare» è lo specifico del «fare» design e tale prassi non ha alvei privilegiati su cui incanalarsi – siano essi la qualità del processo produttivo e del lavoro, l'espressione, la qualità materiale, la comunicazione, l'impegno etico, il basso costo, ecc. Fare design significa determinare «nessi» perpicui tra sentimenti comuni a settori più o meno estesi dei propri simili ed oggetti, animando di senso quanto è già inteso come utile e/o individuando nuovi aggregati di senso e utilità veicolandoli tramite nuove tipologie. Definizione, quest'ultima, da intendersi anche come parafrasi dell'illuminante sintesi di Persico per il quale nel design «non esiste che un problema di gusto». Non a caso la «costruzione di senso» condivide ambiti semantici con la «sapidità», come suggerito anche nel titolo di un recente volume a cura di JoeVelluto.

Tra l'altro, per tale via, diviene ancora più pregnante il dispiego fenomenologico proposto in Pane e progetto dove le diversissime storie professionali esplicano non tanto individualità a sé stanti quanto piuttosto – come insegnano Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant nel bellissimo Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia – la polimorfa epifania di una medesima metis: ovvero «quell'intelligenza pratica, astuta» (e, come detto, riformatrice) derivabile da un «insieme complesso, ma coerente, di atteggiamenti mentali e comportamenti intellettuali che combinano intuito, sagacia, previsione, spigliatezza mentale, finzione, capacità di trarsi d'impaccio, vigile attenzione, senso dell'opportunità, abilità in vari campi, esperienza acquisita dopo lunghi anni» applicabile a «realtà fugaci, mobili, sconcertanti e ambigue, che non si prestano alla misura precisa, né al calcolo esatto, né al ragionamento rigoroso». Metis che, di volta in volta, ha consentito ad ogni autore coinvolto di cogliere quello specifico kairós, quella determinata occasione propizia per concretare le proprie idee in prodotti. Occasione, che, in quanto tale, non può che esser connessa ad un peculiarmente biografico hic et nunc.

Certo, talvolta, le narrazioni lasciano interdetti – e probabilmente più di un giovane sconsolato alzerà gli occhi al cielo – per la felicità delle opportunità e delle occasioni narrate. Dalla lettura emerge infatti – e la cosa sarebbe forse più evidente se i colloqui fossero proposti cronologicamente per età degli intervistati – una sorta di grafico temporale del prestigio rivestito dalla professione. Grafico sul quale è possibile leggere ascesa, consolidamento e declino – essenzialmente in termini offerta e domanda di lavoro, ma non solo.
Scorrendo le pagine del corposo volume di 340 pagine e circa 600 immagini, si evince nettamente quanto essere designer negli anni '60 e '70 significasse appartenere ad una élite societaria. Fatto che ha consentito ai professionisti dell'epoca anche confidenze culturali, letterarie, scientifiche e tecnologiche di altissimo livello – forse mai più riscontrate in ambito nazionale. Essere designer oggi – come nota laconicamente Giulio Iacchetti – significa invece fin da principio porre attenzione sulla scelta delle strutture formative in cui apprendere il mestiere, diffidando di chi chiama candidamente i propri allievi «clienti». Ma significa soprattutto essere consapevoli che talento e determinazione sono fors'anche più importanti di ieri. Poiché a fronte delle autostrade lavorative reperibili quarant'anni fa, oggi occorre ritagliarsi un ambito operativo anche e soprattutto attraverso percorsi «laterali» tortuosi ed intricati (come non ricordare la questione posta da Virginio Briatore nell'incipit del suo Gabriele Pezzini. The warrior designer, «Quanta strada ha dovuto percorrere Pezzini, il guerriero per arrivare dal villaggio di minatori a Muji, da Charleroi al Beaburg (in incognito) da San Benedetto del Tronto a Wallpaper?»).

Entro tale quadro, dalle tonalità meno romantiche e più operaie, si rivela, probabilmente, il più spiccato distacco generazionale sancito dalla quasi totale scomparsa di accenni a tonalità «poetiche» e a relazioni più o meno strette fra arte e design. E ciò in particolare nei «racconti» autobiografici dei nuovi designer italiani – ad eccezione di Paolo Ulian che dichiara apertamente di essere alla ricerca di fruttuose alternative al progetto industriale. Relazioni, tra l'altro, che per il curatore del volume – come per tutta la generazione di imprinting radical – sono palesemente tra i più rilevanti e proficui.

Emerge però anche, come contraltare al declino del prestigio professionale, che la nuova generazione di designer è assai poco incline a indulgere in facili equazioni vittimistiche – come talvolta accade proprio agli appartenenti della generazione radical –, ed è anzi disposta ad acquisire in positivo sia i cambiamenti avvenuti in questi anni sia i valori di continuità che ancora possono rivelarsi proficui per la professione. Molto perspicue a questo proposito le, putroppo, fugaci considerazioni di Andrea Branzi – circa la persistenza di categorie culturali quali «animismo» e «semplicità» considerate come radici di una pluricentenaria identità del progetto plastico e visivo nazionale – che potrebbero rivelarsi una miniera di suggerimenti per allineare lo sguardo ed indirizzare l'operatività a tanti nuovi designer.

Comprensibilmente, dunque, il volume non propone alcuna visione o opzione liberatrice dallo status quo. Vere vie di fuga non sembrano accessibili, ma si possono comunque ritrovare alcune proposte di lettura dello scenario disciplinare – talvolta antitetiche – che potrebbero rivelarsi utili opzioni strategiche per i designer del futuro.

Per Giancarlo Vegni vivere «in maniera strettamente poetica» il mestiere di designer «non è più possibile. Studi come i nostri devono essere organizzati sotto ogni punto di vista, avere una struttura. Non si tratta più di disegnare e basta. È necessario proporsi, seguire i contatti, sviluppare le parti tecniche, seguire il lavoro anche all'estero, le relazioni ecc. Oggi un giovane può anche iniziare a lavorare con la cosiddetta cartellina sotto il braccio ma alla lunga non sopravvive. È necessario crearsi uno staff».
Da parte sua George J. Sowden auspica invece l'avvento di una produzione colta di cui egli stesso, in prima persona, si è fatto promotore. «Penso che debbano nascere tante piccole aziende 'radicali' che progettano desideri di cambiamento. (...) Uno dei grandi problemi a cui la società occidentale dovrà fare fronte nel futuro è la ricostruzione di una economia reale basata sull'utilizzo delle conoscenze, dell'innovazione, dell'uso creativo delle risorse umane e un trattamento appropriato, in termini economici, della proprietà intellettuale: Knowledge Economy».
E se per il fattivo Aldo Cibic «tutte le problematiche che riguardano, per esempio, le risorse, i rifiuti, il riciclo, l'ecosistema, influenzeranno radicalmente il nostro modo di vivere. Chi lavora nel progetto dovrà essere sempre più in grado di confrontarsi con saperi diversi, per produrre riflessioni, proposte, idee, che corrispondano ad un mondo che cambia». D'altro canto la lucida lettura di David Palterer nei riguardi dell'irrilevanza di quel che definisce «design non spontaneo» pone qualche dubbio circa le effettive potenzialità operative sul futuro contesto da parte della figura del designer. E ciò poiché il mestiere appare «sempre più teso fra il copywriter e l'art director, ovvero le "figure creative" delle agenzie pubblicitarie, che quasi sempre – e penso sia importante da notare – sono dei "liberi professionisti". Il paragone con le "campagne pubblicitarie" diventa più incisivo se consideriamo il paradosso che anche nel design l'attenzione viene traslata dall'oggetto (soggetto) al come "farlo notare", "desiderare" e "scegliere" dal consumatore, scindendo il prodotto dalla "sua utilità", e spesso da ogni funzione. The right to choose, il jingle dell'Unione Mondiale dei Pubblicitari, fa leva sul valore morale della "libera scelta", mentre non considera, per ovvi motivi, il fatto che con tale azione si agisce (per non dire si deforma) il modo in cui si "fanno le scelte"».

Opera che sfugge i più tenaci tentativi di sintesi, Pane e progetto. Il mestiere di designer può comunque vantare un valore documentale pressoché inusitato se si pensa ai profili di designer – molti dei quali assolutamente non celebrati altrove – che si sono trovati in relazione con un territorio così ricco di esperienze progettuali e produttive come la Toscana. Più della metà degli intervistati è nato, vissuto, si è formato, ha operato od insegnato in questa regione che li ha arrichiti ricevendone a sua volta il prezioso contributo in termini di crescita economico-culturale del territorio. Non sempre di tale proficuo rapporto si è avuta traccia nella storia ufficiale del design edita sia in volume che su riviste di settore.

Sotto questo aspetto, Pane e progetto può essere quindi considerato una prima ricognizione su quale sia stato veramente – a partire dall'esperienza radical che, come detto, rappresenta per Follesa un evento cerniera imprescindibile e fondante – il ruolo storico della professione di matrice toscana nei riguardi della disciplina nazionale, e quali siano oggi le reali triangolazioni fra Milano, Torino e Firenze intesi come luoghi ideali della «cultura del progetto» del terzo millennio. E anche, tra i differenti «approcci» toscani al progetto, quali siano le figure e le imprese sulle quali avviare una possibile ricostruzione identitaria del «fare» design in Toscana.
In questo primo nucleo di protagonisti assai meno pubblicati di quanto meriterebbero – dal "transfuga" Branzi a Carlo Bimbi, da Biagio Cisotti e Sandra Laube a Nilo Gioacchini, da Simone Micheli a Paolo Ulian, da David Palterer a Giancarlo Vegni – anche e soprattutto per l'originalità, merita una menzione a parte il percorso biografico proposto da Gianfranco Gualtierotti che, forte del suo «vissuto» a stretto contatto con torni, telai e macchine per tessuti e materassi a molle, può oggi contare su una padronanza tecnologica veramente invidiabile nel settore dell'imbottito e nell'ingegnerizzazione di prodotto.

Il resoconto di Gualtierotti rappresenta un racconto in presa diretta dell'avventura produttiva di design a partire dalla fine degli anni '60 e la puntualità dei ricordi del designer pistoiese gli fanno incarnare al meglio il ruolo di testimone anche del lavoro altrui. Del lavoro, cioè, di alcune personalità un tempo considerate «figure chiave» e che oggi – al pari di molte appartenenti agli anni '50 – stanno letteralmente scomparendo dalla memoria collettiva (e ciò a maggior ragione in un territorio tanto incline al polemos quanto poco disposto a celebrare – per incredibili teorie e labirinti di veti incrociati – coloro che hanno contribuito in qualche modo all'evoluzione produttiva regionale). Scorrendo la vicenda professionale di Gualtierotti così modo scoprire, o ri-scoprire, l'attività di Carlo Gori – inventore «pazzo» di attrezzature per realizzare molle –, rivivere le prime sperimentazioni con i poliuretani Bayer svolte insieme a Emilio Guarnacci nonché le realizzazioni dei sedili per aerei di linea dei primi anni '70 concepite e realizzate fra gli stabilimenti Permaflex di Roma e quelli della UNO PI di Calenzano.
Al sapore pionieristico che permea gli eventi narrati s'aggiunge l'opportuna «rotazione» del punto di vista sovente focalizzato su quella fase cruciale e poco nota che va dalla definizione progettuale a quella produttiva. Una sorta di panoramico «dietro le quinte» e, al contempo, anteprima del prodotto finito al quale si arriva attraverso un più o meno lungo iter – costellato sovente d'ingenuità, errori, pertinenze implicite sottovalutate, compromessi alti, ripensamenti, migliorie, ecc. – la cui disamina rappresenta uno dei valori più educativi e più intensi rilevabili nel testo di Stefano Follesa.














Pane e progetto. Il mestiere di designer
di Stefano Follesa
2009, Franco Angeli, Milano

Premessa
II mestiere di designer
Sergio Asti / Antonia Astori / Mario Bellini / Carlo Bimbi / Cini Boeri / Andrea Branzi / Aldo Cibic / Biagio Cisotti e Sandra Laube / Antonio Citterio / Donato D'Urbino e Paolo Lomazzi / Riccardo Dalisi / Paolo Deganello / Nathalie Du Pasquier / Nilo Gioacchini / Stefano Giovannoni / Gianfranco Gualtierotti / Giulio lacchetti / Massimo Iosa Ghini / JVLT/JoeVelluto / Ugo La Pietra / Liliana Leone e Luca Mazzari / Piero Lissoni / Angelo Mangiarotti / Enzo Mari / Alberto Meda / Alessandro Mendini / Simone Micheli / Miriam Mirri / Ludovica+Roberto Palomba / David Palterer / Franco Poli / Ambrogio Pozzi / Daniela Puppa / Matteo Ragni / Prospero Rasulo / Denis Santachiara / William Sawaya / Luca Scacchetti / George J. Sowden / Matteo Thun / Paolo Ulian / Giancarlo Vegni / Gianni Veneziano / Nanda Vigo


Stefano Follesa. Architetto e designer. Inizia il suo viaggio nel mondo degli oggetti, dopo la laurea con Adolfo Natalini, nel 1987, quando con Claudio Del Bufalo e Antonello Murgia, fonda l’Atelier Metafora, riempiendo di idee e prototipi un piccolo seminterrato nella Firenze ottocentesca. Ha vinto diversi premi in concorsi di architettura e design, tra cui nel 1993 il primo premio al concorso internazionale «L’Oggetto Neoeclettico» nell’ambito di Abitare il Tempo a Verona. Tra le mostre a cui ha preso parte è particolarmente legato alla prima mostra dell’Atelier Metafora «Oggetti e Progetti», nel 1990, ed alla partecipazione con Marco Magni alla mostra «Oggetto e Società» nell’ambito di Abitare il Tempo 1994. Suoi progetti sono stati esposti a Francoforte, Londra, New York, Pisa, Cattolica, Roma, Milano, Modena, Verona, Todi e Firenze, e pubblicati su libri e riviste nazionali ed internazionali. Ha lavorato con le aziende Anthologie Quartett, Artieri Alabastro, Genius, Cassetti, Ceranima, Elequattro, Roberti Rattan, Euralabastri, Terzani, Fattori Industria Mobili, Mesa e Marioni. Nell’ambito dell’attività di ricerca che svolge all’Università di Firenze, ha curato la pubblicazione dei volumi Sostituzioni, Octavo Editrice, e Avvicinamenti all’Architettura, Edizioni Pontecorboli, Architetti e ceramisti per Edifir. Dal 1995 è direttore artistico della Fattori Industria Mobili. Attualmente vive e lavora a Sesto Fiorentino.
     
a cura di: 
Umberto Rovelli 
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