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 CULTURA DEL PROGETTO COME FALLIMENTO E...
 DESIGN ISTANTANEO PER TUTTI


Nato nel 1967 a Verbania, in provincia di Novara, Giorgio Tartaro è giornalista professionista e si occupa da anni di progetti per la comunicazione del design. Ha lavorato come redattore e direttore editoriale presso numerose testate di arredamento, architettura e design – Modo, Domus, bOx International Trade, Case & Stili –, collabora con le riviste D La Repubblica, GQ e con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani. Ha cooperato alla redazione di vari libri: L'Arte in trincea (Skira), Liquid Space, 70 anni di Boffi, bOx Circa 40 (Edizioni Fiera Milano), è coautore con Peter Skinner e Michael Wallace de I giganti che sfidavano il cielo (Whitestar 2002), ha curato il catalogo sulle sedute celebri del design italiano Coppie Celebri (Sitcom Editore 2008). È inoltre condirettore del master in Interior design della Scuola Politecnica di Design e Politecnico di Milano e svolge attività didattica come visiting professor presso le maggiori istituzioni per l'insegnamento del design (Domus Academy Roma, IED, Iulm, Facoltà del Design di Bolzano).
Autore televisivo per RAI (Lezioni di
Design e Mosaico per RAI Educational) e Sitcom è attualmente direttore editoriale del canale satellitare Leonardo (primo canale italiano dedicato alla casa, www.leonardo.tv), e conduttore di format di successo di architettura e interior design. A partire da settembre 2009 conduce Design.book, un programma innovativo dedicato ai profili dei giovani designer del momento.


Per prima cosa vorrei che raccontassi come sei diventato uno Scrittoteledattilo (termine prescelto per autodefinirti – probabilmente da brevettare – non privo di assonanze giurassiche che mira a descrivere la figura dello scrittore|autore|conduttore) ovvero uno specializzato nella cultura del progetto. C’è stata una svolta, un evento, un qualcosa che ti ha indirizzato verso il design?
La definizione «scrittodattilo» è di Stefano Benni. Io ho solo aggiunto «tele», et voilà: «scrittoteledattilo». E così mi sento perché ho fatto lettere, ma non ho mai scritto nulla (all'Università). Strano, vero? Era il vecchio ordinamento...
Dicevo di sentirmi «scrittoteledattilo» perché ho iniziato la mia tesi di laurea con una macchina per scrivere e l'ho finita con un computer «portabile» più che portatile. Ecco il giurassico – poi confluito in un 2.0 – che, in qualche modo, cerco di dominare dalla piccola interfaccia del mio palmarino.
In realtà, la svolta non c'è mai stata perché quella tesi per vari strumenti – di scrittura – era «su» e «con» Enzo Mari.
Volendo fare una mappa sintetica del mio «percorso»: sono partito dal design, provenendo dalla storia dell'arte e dalla musica praticata, ma tutto questo – e forse è l’essenziale – prima ancora di avere una qualsiasi idea circa una possibile «carriera» in questo campo.

Quanto ha contato per la tua carriera lavorare nella redazione della rivista bOx accanto a una figura di spicco del design industriale – purtroppo scomparsa recentemente – come Manuela Cifarelli? Possiamo dire che, certe volte – ovviamente secondo le capacità dell’allievo –, il contatto e la frequentazione di un Maestro funziona da stimolatore o da acceleratore intellettivo?
Ho iniziato a lavorare a bOx dal secondo numero della rivista, grazie alla chiamata di una grandissima e bella persona – anche lei da poco scomparsa – che, tra l’altro, era già stata mia «collega» nella redazione di Modo: Mariaclara Goldschmiedt... Diceva che la sua intelligenza era da mettere in relazione con il fatto di aver dovuto imparare in fretta a scrivere il proprio nome...
Lì in redazione conobbi Manuela Cifarelli, quel suo fantastico sorriso e quei suoi meravigliosi occhi direttamente collegati ad un cervello libero e dissacratore quanto bastava. Una bellissima collaborazione che s’interruppe per un mio «anno di militare» a Domus, e che mi vide poi rientrare in veste di direttore, su chiamata di Manuela. Ma vorrei risponderti anche più direttamente. Queste persone non sono maestri ma compagni di vita che porterò sempre con me...

A questo punto vorrei parlare del programma Design.book. Un social network televisivo che riporta profili e lavori di architetti e designer – ma anche di personalità con professioni «satelliti» al design –, e che coinvolge vip e non-famosi al suo interno attraverso contenuti letterari, approfondimenti e gossip di settore. Oltre a com’è nata l’idea e da chi, vorrei che ci parlassi del tuo percorso televisivo e del lavoro che vi sta dietro...
Sono domande plurime, anche complesse...
Un mio editore, dotato di grande spirito, o infallibile memoria, mi diceva sempre: «non vorrei rovinare con una inadeguata risposta la sua splendida domanda».
Cercherò, dunque, di rispondere così: il mio lavoro di autore e conduttore televisivo parte da lontano. Prima in RAI, con Lezioni di design nel '98, quindi alla Sitcom con i programmi Leonardo e Alice.
Ho sempre fatto interviste nell'ambito di architettura e design. Nel lavoro televisivo convergono molti ambiti operativi, e diverse pratiche «tradizionali» insieme a quelle più specifiche del medium televisivo. Si va dal reperimento delle fonti, dei personaggi, alla gestione di se stessi e dell'ospite in video, per finire – si fa per dire – al mantenimento di una linea editoriale; attività molto più difficile e complicata in un format TV rispetto alla carta stampata, dalla quale provengo.
Per qualificare la mia attività posso dirti che sono curioso, ho decente memoria e capacità di connessione. Porto in TV – e non finirò mai di ringraziare Valter La Tona, presidente di Sitcom che mi dà credito da tanti anni – le mie esperienze, i tanti incontri che faccio quotidianamente, collaborando con persone e idee, ergendomi idealmente a nodo di una rete.
Invece, per quantificare il mio lavoro posso dire che ammonta a quasi 1000 puntate tra Case & Stili, Tendenze Casa e Design.book.

Grazie ad una notevole duttilità comunicativa - saggiata nei contatti umani reali e virtuali occasionati dal programma, dall’insegnamento e dalla rete (tramite spazi sul tuo blog o via social network) -, partecipi quotidianamente ad un intreccio di relazioni tanto consistenti numericamente quanto «liquide», ovvero sempre sul punto di crearsi e dissolversi spontaneamente tra loro. Un flusso assai vitale che - forse - ti consente di cogliere meglio e prima nuove sfumature, nuove esigenze, nuove problematiche. Sperimentando da qualche anno questa prospettiva «immersa» ed errabonda, cosa pensi di questi strumenti comunicativi e dei cambiamenti che apportano alla società?
Parto dal fondo. Per me il cambiamento è sempre interiore, quindi se mi evolvo e uso la tecnologia (i social network sul palmare, per esempio) questo non significa che io mi aggiorni su richiesta. Come in qualsiasi ambito il rischio di eterodirezione delle nuove tecnologie è consistente e va controllato, ma non sono certo un patito della tecnologia e quando scopro le potenzialità di una piattaforma, cerco di continuare su quella.
Riguardo ai contatti quotidiani. Non sopporto chi parla male di Facebook o altro... Facebook sei tu, sei quello che fai e che dici. Ci sono i mezzi per difendersi e puoi anche non esserci. Per me Facebook è stata una scoperta eccezionale. Mi ha fatto conoscere nuove professionalità e amicizie, e ha rinsaldato vecchie amicizie... Oltre ad essere un’inesauribile fonte di aggiornamento: una newsletter istantanea su tutto...

C’è chi afferma che il design in Italia si corre in solitaria e chi, come Fabio Novembre, afferma che il concetto di socialità è il valore essenziale, dove il noi è l’io all’ennesima potenza. In base anche a quello che con gli anni i nostri designer ti hanno rivelato, qual è la soluzione vincente (agli occhi della maggioranza) per la creazione di un buon oggetto? Insomma… Chi fa da sé fa per tre oppure uno per tutti, tutti per uno?
Beh, vedi, io per forza di cose faccio parte di una generazione della condivisione. Credo ad alleanze strategiche e tattiche, ma credo ancor di più nella condivisione di ideali e nelle amicizie.
I grandi maestri erano soli, le avanguardie radicali in gruppo, i nuovi maestri soli, i giovani non più giovanissimi, prima in gruppo e ora soli...
Per me chi mette la faccia e diventa in qualche modo un brand di se stesso è fondamentalmente solo, ma non può fare a meno degli altri e normalmente è così intelligente da capire quando «condividere»...

Riallacciandomi anche alla figura di Manuela Cifarelli e al ruolo svolto da lei in questi anni, ti vorrei chiedere un’impressione sul design al femminile e di sbilanciarti su qualche nome rosa che preferisci e perché…
No, nel mio «ruolo» non faccio nomi, è meglio... Anzi, te ne faccio solo uno che ho portato in TV e che mi è rimasto nel cuore per libertà di pensiero e giovanile ardore: Cini Boeri. Però devo purtroppo darti una statistica molto negativa. Pur sforzandomi, i miei ospiti al femminile, su Design.book, non raggiungerebbero il quorum in un sistema proporzionale...

Credo che Milano sia ancora il centro del design in Italia, costituita com’è da un orizzonte mobile forte e imprescindibile - imprese, mostre, incontri alle presentazioni, comunicazione all’editoria - che la caratterizza fortemente durante tutto l’arco dell’anno, non solo durante il periodo del Salone del Mobile. A questo proposito vorrei il tuo parere su quest’ultima edizione 2010 e del suo fidato FuoriSalone - poliedrica vetrina settimanale che ogni anno permette di vivere ovunque e a tutte le ore in perfetta simbiosi con il design…
La risposta è già in parte racchiusa nella tua domanda. Non potrei aggiungere molto se non un dettaglio molto personale dato da una particolare euforia che mi ha guidato durante la design week. Ho fatto una quindicina di saloni e quello di quest'anno l'ho vissuto davvero in modo pieno. Ogni giudizio su collezioni e primati sarebbe tautologico.

Alessandro Mendini ha detto: «La sedia è un fazzoletto appoggiato sui gradini della chiesa per non sporcarsi il vestito della domenica». A prescindere dall’avvenuto cambiamento della figura del progettista - che oltre al proprio modus operandi adesso nasce e si forma distintamente per la professione di designer e, nella maggior parte dei casi, non è più un architetto -, vorrei chiederti come si è evoluto in questi ultimi decenni il valore proprio e intrinseco degli oggetti. Visto anche il numero crescente di chi li studia e progetta, non corriamo oggi anche il rischio di una svalutazione del loro livello «emozionale» e magari di ritrovarci in una saturazione di sistema in cui forse è quasi più facile realizzare prodotti per ambiti espositivi (ivi inclusi i «non luoghi» delle trasmissioni televisive) che entrare nelle case reali?
Ah, la cultura dell'effimero, che la TV cavalca e propone (non tutta)...
Come risponderti? Tu citi Mendini, geniale maestro e persona davvero squisita, e io ti rispondo con il burbero Mari: «ho disegnato 27 sedie, molte di successo, ho all'attivo oltre 2000 progetti realizzati, ma oggi non saprei progettare una sedia».
Ecco, io insinuerei un po' di cultura del progetto come fallimento, per arrivare a nuove idee di progetto. E poi lo hai detto tu. Ci sono tantissimi ambiti che necessitano di progetto. Let's work!

Credo che il design sia assolutamente coinvolto con il senso «domestico» dell’esperienza vissuta. La memorabilità intensa del furniture non è forse connessa con la prossimità avuta con «quella» sedia in cucina, «quel» letto e «quel» divano che abbiamo incontrato ed imparato a conoscere nella casa dell’infanzia? A questo proposito ti sottopongo una frase di Andrea Branzi che in Sette gradi di separazione, nel catalogo della mostra The New Italian Design del 2007, afferma: «C’era un tempo (non lontano) in cui a Milano i designer erano poco più di venti, e le industrie che li facevano lavorare si contavano quasi sulle dita di una mano. Quel mondo era più semplice di quello di oggi, ma produceva capolavori e best-seller: oggi non ci sono più né gli uni né gli altri. Al loro posto c’è questa specie di Nashville generale, dove tutti cantano ma non si riesce a ricordare le canzoni». Il design che non è anche un best-seller che cosa è allora?
Osmosi? Ho colloquiato proprio poco tempo fa con Branzi all'Istituto Europeo di design a Roma.
Io dico sempre questo: non è necessario che tutti diventino musicisti, ma sarebbe bello che molti sapessero leggere la musica. Dal pionerismo alla cultura diffusa. Corsi e ricorsi storici?

Ecodesign, sostenibilità, green project. Potrei elencare numerosissimi materiali (sostenibili, riciclabili, leggeri, a basso costo) con cui poter fare architettura e design, affiancati da altrettante buone idee. Eppure sul mercato italiano i prodotti ispirati alla sostenibilità latitano. Com’è possibile?
Rispondo brevemente: consiglio a tutti di leggere un libro di Paolo Tamborrini, Design sostenibile, Electa, 2009.

Concordo, quando dici che in Italia l'architettura è molto regionale, nel senso che quello che vale a Milano e Trieste non vale a Firenze e Roma. In Toscana - almeno da quello che ci è dato vedere - anche il nuovo pensiero architettonico ha grossi ostacoli, non solo diversità stilistiche. L’uso del mattone predomina e, ad esempio, pensare di realizzare una casa interamente in legno (nonostante i vantaggi che possiede non solo in termini di risparmio energetico e sicurezza, ma anche economici) è considerata una scelta non molto razionale quando invece al Nord sarebbe un’ipotesi più che lecita e ponderabile. In questi ultimi tempi poi, dopo anni di decadente stasi, sembra che l’Italia stia muovendo dei passi verso l’accettazione dei suoi autori e conseguentemente dei loro colleghi stranieri (in maniera forse ancora troppo plateale), ma senza una vera logica ragionata di sottofondo. Sulla scorta dei tuoi numerosi incontri e dibattiti con architetti molto attivi come Renzo Piano e Jean Nouvel, che conclusioni ti senti di trarre? È un problema di moda, di rigidità territoriale, di mentalità o cos’altro?
Un'altra domanda epocale, che richiederebbe una risposta lunghissima. Ritengo quello delle archistar un falso problema. Girando per Milano e Roma si vedono molti cantieri. Nonostante polemiche, crisi e altro si è mosso davvero qualcosa. E queste architetture iconiche sdoganeranno la contemporaneità e trascineranno un pubblico allargato verso una domanda di nuova architettura e non più solo casetta in stile. Qualcuno lo ha chiamato «caso Ikea», riferendosi a una nuova attenzione per la casa... Bene!

a cura di: 
Federica Capoduri 

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