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 L'ASCESI TEMPERATA DEL BANALE. DESIGN TRA RITO ED IRONIA
 Intervista ad Antonio Cos


A soli trent'anni Antonio Cos è oggi tra i più interessanti designer borderline internazionali. Antropologo e sociologo dilettante, Cos riesce spesso a sorprendere per la forza delle proprie intuizioni creative applicate in oggetti "stra-ordinari" evocati da uno sguardo incantato, intento ad osservare – come attraverso la lente del rito e del mito – il quotidiano. La razionale poesia delle sue "forzature semantiche" e dei suoi "oggetti bifronte" – a metà strada tra innovazione tipologica e anonimato formale – ha suscitato ben presto l'interesse delle aziende per i suoi primi lavori autoprodotti – Igloo, Tiptap, Fuck, Spina di rose, Drink –, i suoi prototipi – Faro, Pipistrello, Ska, Tripod, Joy-Stick, Salsa – e per il suo intuito da "dislessico della funzione". Con Embouteillage ha dimostrato le proprie capacità di manipolatore di archetipi, ma non ha deluso nemmeno nel passaggio dalla piccola alla grande serie realizzando, con numerose aziende, prodotti in grado di captare i rituali di un'umanità nomade e glocal e in cui semplicità inventiva e tradizione convivono pienamente senza apparenti tensioni. Ha collaborato con Bosa, Caterpillar, Coop Italia, Luciano Duccetti, Erreti, Habitat, Provenza, Legnoart e, dimostrando di mantenere viva la propria esigenza di ricerca continua e personale, ha partecipato a numerose mostre collettive – The Future of Manufacturing 2003, Tipi Italiani II 2004, Sensi Divini 2004, Vivere il Cioccolato 2004, Design alla Coop 2005, Dolce Vita 2005, Vindesign 2006 – e personali – Cos è?Cos è! 2004.

Come accade raramente di trovare, nel tuo lavoro di questi anni si percepisce una forte attenzione al comportamento, o, per meglio dire, alla ritualità del quotidiano. Gli anni '80 hanno segnato il declino delle grandi narrazioni, delle grandi ideologie, ma il "sapere senza certezze" non ha mai colmato il vuoto esistenziale, l'anelito di un oltre in grado di affrontare e temperare la strada maestra del raziocinio. Rito – insieme a mito, poesia, amore –, sono forse un patrimonio concettuale che ancora non ha la dovuta cittadinanza nel pensiero senza dogmi del nuovo millennio. Nella complessità del rito possono ricadere le ambigue nozioni di tradizione – ad un tempo matrice di rispetto e tradimento –, gestualità e sapere del corpo – che rende ogni osservanza occasione, lasciando quindi spiragli aperti all'invenzione, l'innovazione, l'evoluzione. Questa lunga premessa per domandarti della tua ricerca e sperimentazione circa la tenuta di un archetipo formale – la bottiglia bordolese – che porta con sé il segno di un rito antico – forse il più ricco di implicazioni: devianza, visionarietà, eccesso,… – della stanzialità.
La cosa che più mi affascina di queste forzature, è proprio la tonalità calda della tua askesis – un'ascesi temperata, poetica e amorosa. Non la fredda ironia, la posa intellettuale – la tonalità mendiniana per intenderci –, ma una sapiente elaborazione che reca il tepore dell'opera di Efesto…

Effettivamente penso che il tempo delle grandi ideologie sia svanito, forse perché il passaggio del millennio è alle nostre spalle, forse perché una logica di progetto, oggi, non è più rivolta alla sperimentazione, ma principalmente alla vendita. Forse perché in Italia c'è questo brutto vizio di vivere sull'immagine del passato… "si stava meglio prima", ecc, ecc, ecc…
Viviamo una generazione che non ha la pretesa di voler rifare il mondo ma di volerlo vivere serenamente. Il quotidiano, il momento presente si fa esigente, perché è adesso che viviamo, domani… boh? Carpe diem!
Il mio modo di progettare mostra, come giustamente dici, un'attenzione alla ritualità del quotidiano. Per me è importante nutrirsi del quotidiano, del banale – o apparente banalità.
Mi mimetizzo come apprendista antropologo, sono un dislessico della funzione (mi viene naturale…). Essere contemplativo-attivo, osservare ed agire. Non c'è niente di scientifico solo spontaneità…
Così è il lavoro sulla collezione di ready-made di bottiglie, che ho intitolato Embouteillage.
Se da una parte cerco di trasmettere emozioni con oggetti banali, lo faccio cercando di coniugare la geometria al sentimento. Cuore di bottiglie ne è il perfetto esempio, ho semplicemente osservato la geometria della bordolese e l'ho deviata su un altro archetipo, il cuore, che presentava le stesse caratteristiche formali. Henri Cartier-Bresson diceva: "Se c'è un dio, si chiama Pitagora".
Questa collezione è nata casualmente. Dovendo stirare la pasta per preparare una torta salata, mi sono reso conto che non c'era un matterello in casa. Ho preso una bottiglia. Uno spostamento di funzione comune e popolare. Da lì ho voluto sperimentare, verificare le potenzialità di riutilizzo sia funzionali che estetiche della bordolese.
Vorrei citare un esempio di atto progettuale spontaneo che appartiene al nostro quotidiano e che trovo particolarmente significativo. Recandomi a Napoli, dove ho una parte della mia famiglia, vedo a pranzo mia zia spezzettare gli spaghetti per il nipotino con un bicchiere di vetro rovesciato con un movimento di rotazione del polso. Zia Anna ripete il rituale della preparazione degli spaghetti come la nonna Vicenza faceva già a lei da piccola. Il bicchiere non è più contenitore ma un coltello per spaghetti. Sicuramente se spiego a zia Anna che è stata creativa nel modo di tagliare la pasta mi chiederà se voglio anche io gli spaghetti spezzettati con il bicchiere…
Per me – o noi "addetti lavoratori e pensatori del Progetto" –, lo si può definire come atto creativo stra-ordinariarmente sincero. Nasce da un'esigenza, un bisogno ed è attraverso quest'alchimia propria all'Italia dell'"Arte di arrangiarsi" che vengono fuori degli atti banalmente-sorprendenti.

Anche per nascita sei un designer di frontiera, probabilmente bilingue perfetto. Forse questa opportunità donata dal caso si è rivelata utile nella professione. C'è qualche connessione esplicita o implicita fra spostamento di funzione e traduzione? E, più in generale, ritieni che l'interpretazione – abbastanza consolidata, ma non per questo un dogma – del design in quanto sistema di segni analogo al liguaggio sia un'ipotesi operativamente fruttuosa e ricca di implicazioni pratiche, creative ed innovative nella professione?
Essere bilingue è uno strumento o piuttosto un input di creatività fantastico. Peccato che non "speako" più lingue... Quando penso o parlo francese è diverso da quando penso o parlo Italiano (o napoletano mia madrelingua con il francese). Il gioco consiste nel far dialogare queste differenze di sensi o controsensi ed accordarle a piacimento come note musicali.
Il mondo funziona con codici e segni visivi. La scrittura ad esempio. Il fatto che questa forma: "Z" sia universalmente riconosciuta come una lettera dell'alfabeto arabo e che la sua pronuncia varia a seconda della lingua parlata – [ ZETA ], [ ZED ] (sono falsi fonetici…) – dimostra che l'uomo ha bisogno di questi segni per costruire la sua storia e per capirsi.
Ma una "Z" può essere anche letta come una "N" rovesciata. La segnaletica stradale, le espressioni del nostro corpo, ecc… Tutto è segno e significato. Semantica. René Magritte con "Ceci n'est pas une pipe" gioca con il contenuto pipa e il contenitore tela. E' con questa logica che vedo e faccio design.

Materiali da imballaggio trasformati in texture traslucida, forme della segnaletica stradale reinterpretate come luce da interni, contaminazioni e rovesciamenti di archetipi, oggetti bifidi e trasformisti, innovative funzioni aggiunte a oggetti comuni… In sintesi sto tracciando il tuo laboratorio di prodotti "in cerca di produttore" realizzati tra il 2002 e il 2003. Se ne evince il persistere di almeno un doppio binario (mano e mente) che pare instradarti alla realizzazione di prodotti di design. Da un lato la materia, la curiosità tattile; dall'altro l'intuizione brillante, l'associazione mentale innovativa, la concettualità ormai storica che ha permeato i primi lavori di Duchamp…
Ti ringrazio per il paragone, sono molto onorato, ma devo confessarti che la ruota di bicicletta sullo sgabello di Duchamp non l'ho ancora completamente assimilata…
Se paragone deve essere, avviene sull'utilizzo del ready-made e sull'esaltazione dell'oggetto comune. Ma Duchamp era un cervellone, io sono molto più intuitivo, o pratico; non so.
Ogni progetto che affronto non nasce mai nello stesso modo. Alcune volte è la materia che mi guida nel progetto come ad esempio la serie di lampade Igloo. In questo caso volevo esaltare la materia – polistirolo – nel modo più giusto.
L'oggetto Igloo è poverissimo quando è spento ma prende tutto il suo senso e ricchezza quando viene acceso.
Spesso, sono delle situazioni vissute che mi hanno portato a pensare e partorire progetti.
Ad esempio, non avere un comodino per appoggiare i libri e una lampada vicino al letto, fa riflettere prima di addormentarsi… La lampada/mensola Pipistrello mi è sembrata giusta perché riuniva il comodino e la lampada da comodino in un oggetto semplice e di dimensioni contenute.
Pagare al bar il vostro caffè con su di voi la borsa, l'ombrello e la fretta non è comodo. I casi sono due: o abbiamo più di due mani o bisogna intervenire su qualcosa. L'oggetto Tripod è una proposta d'ombrello dove ho ripensato alla punta come piede di appoggio in modo che l'ombrello e il suo utilizzatore possano essere autonomi senza aver bisogno l'uno dell'altro.

Siamo partiti dalle bottiglie ma molti altri tuoi progetti sono coinvolti nel rito del cibo, l'alchimia delle spezie…
La tavola è un altro mondo ricco di usanze da esplorare.
Il set di macinapepe e sale Salsa non funge solo da macina – e poi diciamolo: macinare il sale non serve a niente; è una richiesta puramente commerciale. Se le spezie hanno la capacità di esaltare il palato, volevo ampliare quest'esaltazione al suono. Sale e Pepe si prestano così come materia prima di uno strumento musicale: le maracas.
Joy-stick, Spine di Rosa sono altri oggetti legati alla tavola che parlano di handicap culturale o di poesia – chissà che gli stuzzicadenti non vengano davvero dalle spine della rosa...
Sempre rimanendo in cucina, con Sophie Usunier – mia compagna ed artista –, ho disegnato un cioccolatino con la forma di un molare, Pre-giudizio. Cioccolato bianco fuori, nero dentro. C'è un rapporto di causa ad effetto immediato: mangio cioccolato mi vengono le carie! Hai già provato quello al peperoncino? Buonissimo…

C'è poi da segnalare la tua sorprendente capacità di costellare attorno ad un semplice centrino significati e meditazioni circa le relazioni intergenerazionali…
In una casa, il centrino è come il punto sopra la "i", o la ciliegia sulla torta della finitura personalizzata dell'arredo. Segno di tradizione, di gente per bene: centrino a posto coscienza pulita... Il progetto del centrino Fuck nasce anche qui da un'osservazione. I graffiti nei mezzi pubblici sono scritte fatte in modo velocissimo, parlano di territorialità, di denuncia, ecc… Le similitudini ornamentali/grafiche che possiedono queste due forme di espressione mi hanno spinto a fare realizzare centrini all'uncinetto con la scritta Fuck: divergenze di classe sociale e scontro generazionale...

Dei tuoi oggetti traspare quasi immediatamente la necessità. Intuizioni ed invenzioni che non sono mai "gridate" quanto piuttosto suggerite ed esposte col garbo e l'immediatezza di chi vive su di sé le problematiche che tenta di risolvere...
Un'altra mia preoccupazione è di dover traslocare. Solo all'idea mi vengono i brividi. Quando penso ad un mobile – mi viene automatico – diventa quasi subito un mobile-mobile, proprio pensando al fatto di dover cambiare posto o disposizione di arredo. La libreria Parentesi – disegnata per l'appunto per non essere disegnata (ovvero per apparire anonima) –, si dimostra utile per il suo montaggio o smontaggio. Basta aprire due montanti a 90°, appoggiare i piani in lamiera e fissarli a mano, senza l'utilizzo di nessun attrezzo. Non è nient'altro che un paravento che non ripara dal vento. Potrei continuare parlando di Ska, Faro, Drink, Tris, Pratino, The Zazu, ecc... Insomma di tutti i progetti che ho fatto fino ad ora, ma non so se il lettore ce la farà a digerire un mattone di font condensati... Questi esempi di progetti sono delle risposte che derivano direttamente dal nostro modo di vivere, per questo motivo, penso che l'antropologia, la sociologia siano importanti come strumenti legati alla progettazione. Ma soprattutto osservare e chiedersi perché quell'oggetto x, y o z che abbiamo di fronte, esiste.

Nell'esperienza di un giovane designer, tra le componenti biografiche che forse più meritano di essere trasmesse c'è sicuramente quella del "come avviarsi alla professione". Nella tua storia di "non solo designer" cosa ha contato in particolare? La tua permanenza nello studio del "mago" Denis Santachiara o la tua frequentazione "poetica" di Ettore Sottsass? Oppure il tuo percorso è stato particolarmente segnato dai compagni di strada – ad es. Giulio Iacchetti, Matteo Ragni, Gabriele Pezzini –, incontrati nella tua esperienza di espositore di prototipi autoprodotti in mostre collettive? O, ancora, la particolare attenzione, il sostegno di un critico – ad es. Beppe Finessi o Paola Antonelli?
Mi piacerebbe soffermarmi sull'aspetto "non solo (industrial) designer".
Non mi sono mai piaciute le catalogazioni. Il fatto che mi definisca "designer ma non solo", significa che il lavoro e la ricerca che effettuo non per forza deve convergere verso un oggetto industriale.
Esiste Il disegno, la fotografia, il suono, il video, il cibo, ecc... Ogni pensiero va espresso con il dovuto supporto al fine di essere pertinente.
Ho molto apprezzato l'esperienza da Denis Santachiara. E' a causa sua – o per merito suo (non lo so ancora...) –, che sono partito dalla Toscana per venire a Milano. Lo studio di Santachiara è stato per me una visione idilliaca del design. Tutto quello che mi potevo immaginare sul design l'ho trovato da Denis: La creatività, la freschezza, la magia di un mondo tutto da far vivere. Per me era un maestro e lo rimane. La prima volta che lo vidi, ero al primo anno dell'ISIA di Firenze e lui faceva lezione al quarto. La sua lezione: visione del film Playtime di Jacques Tati. Da lì mi sono detto: "Voglio andare a lavorare da questo tipo!". Dopo 5 anni ho bussato alla porta del suo studio.
Mi sono accorto, dopo quest'esperienza, che Milano e il design erano belli solo dalla finestra sul cortile del suo studio. I miei successivi rapporti con altri studi sono meno significativi. Ho sì avuto la fortuna di collaborare su un progetto con lo studio Sottsass Associati, ma come collaboratore esterno, quindi non c'è stato lo scambio d'idee o il rapporto di maestro-allievo.
A volte si pensa che gli ostacoli sono ostacoli, invece no. Dopo una Santachiarata abbondante, un contorno Ettoriano e altri stuzzichini creativi, dovevo anche pensare a campà... Quindi ho lavorato come grafico nella moda per il marchio Fiorucci (non i salumi...).
Mi stavo allontanando da quello che mi piaceva ma dopo 2 anni, grazie ad un mobbing – si dice così mi pare – organizzato, ho puntato tutto sul Salone Satellite, dicendomi semplicemente: "Voglio sapere se quello che penso e faccio sono delle cazz… oppure no".
Da lì, ho avuto la fortuna d'incontrare alcune belle persone. Tengo a citare in particolar modo Paolo Avvanzini industriale e titolare del marchio Duepuntosette con cui collaboro tuttora e Fabrizio Duccetti titolare del marchio The Zazu – i due principali sostenitori delle mie iniziative –; "zii progettuali" come Gabriele Pezzini, Fabio Bortolani o lo studio Aroundesign, con cui collaboro per alcune mostre o progetti. Spero un giorno potergli "rimandare l'ascensore", come si dice in francese...

Altro aspetto interessante della tua carriera è la frequentazione di Istituti sia francesi che italiani – fiorentini in particolare. L'ISIA di Firenze è, credo, l'unica scuola che può vantare tra i propri insegnanti un professore come Enzo Mari che afferma pubblicamente l'impossibilità di insegnare a diventare designer. Andando alla cronaca locale, il primo triennio del nuovo Corso di Laurea in Design Industriale è stato salutato da polemiche "puriste" – soprattutto da parte di una Facoltà come Architettura non compromessa da anni con il mondo del lavoro –, nei confronti di una "Laurea breve" che fa quasi un vanto dell'essere inserita – anche fisicamente – nel cuore della produzione, a Calenzano. Pur essendo recente la questione sembra vexata più che mai, forse perché i prodromi sono stati analoghe dispute – magari sotterranee e implicite – tra Facoltà di Architettura e Istituti di Design. Fatte queste premesse, sempre un po' troppo lunghe e provinciali per la verità, che tipo di esperienza è stata la tua formazione?
Non sono al corrente di queste polemiche tra Istituti e Facoltà.
Per quanto mi riguarda, ho un percorso scolastico abbastanza lineare anche se mai concluso.
Tutto è nato alle medie, dove andavo all'unica ora di disegno settimanale concessa. Avevamo un professore "rockabilly", Monsieur Bernhart che rispondeva solo se lo chiamavamo col suo nome Antoine. Ci faceva ascoltare musica. Mi ricordo con piacere una versione incazzata di "Papa-oom-mow-mow" originariamente dei Rivingtons... Da lì sapevo già che volevo fare qualcosa che c'entrava con il disegno!
Ho proseguito in un liceo di arti applicate sempre a Strasburgo, lycée Auguste Perret, la sezione all'epoca si chiamava F12, l'equivalente del liceo artistico italiano, con la differenza che avevamo delle buone basi pratiche di grafica, architettura d'interni e design.
Dopo la maturità, volevo farla breve e non passare da Parigi che mi spaventava. Contrariamente ai miei amici che sono andati in Accademia, mi sono indirizzato su un "bts esthétique industrielle", scuola Raymond Loewy alla Souterraine nel dipartimento della Creuse a 50km da Limoges. Questo bts era una laurea breve in disegno industriale di 2 anni. Ci sono andato perché mi hanno detto: "Se vi piace la campagna e le mucche..." E' una scuola con delle ottime attrezzature: computer e laboratorio di modellistica con macchine a gogò. Ma, come si dice nel gergo studentesco, sono stato "segato". D'altra parte, però, mi sono divertito.
A quel punto non sapevo tanto cosa fare e ho deciso di ritrovare le mie radici italiane, il pretesto degli studi mi è apparso come un ottimo modo per vedere che cosa voleva dire essere italiano in Italia e non all'estero. Quando ho letto in una rivista che c'era una scuola in Italia che si chiamava Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, mi sono detto che dovevo andarci. Così ho passato il concorso e sono stato accettato all'Isia di Firenze, che considero un'ottima scuola di progettazione in cui la figura del direttore Giuseppe Furlanis contribuisce fortemente. Enzo Mari, Paolo Deganello, Isao Hosoe, Giorgio Berretti, Denis Santachiara, Dante Nannoni, Andries Van Honck, Gilberto Corretti, Mario Lovergine come docenti o visiting professor – la lista è lunga e mi scuso se ne dimentico –, non è da poco. All'ISIA, ho reimparato le basi, mi sono accorto che non sono i mezzi materiali che una scuola possiede che fa la qualità del progetto, ma la passione di persone che lavorano in quest'ambito e la loro capacità di trasmettere questa passione. Quando sentivo le conferenze di Mari, il venerdì pomeriggio, stavo male per 2 giorni.
Per diversi motivi personali, non ho mai finito l'ISIA. Questo istituto pubblico mi ha dato dopo quattro anni una cartella di colori in mano dicendomi: "Questa cartella si chiama progettazione, se guardi dentro ci sono tanti colori. Sta a te di appropriarti del tuo e di coltivarlo". Almeno io l'ho capita così.

Arrivare a produrre è sì una fortuna, una meta, ma anche un momento cruciale per le nuove relazioni – sovente più mediate – che s'instaurano fra prodotto e progetto. Il passaggio dall'autoproduzione a progettista d'impresa ha comportato per te modifiche di approccio al progetto? Ti sei sentito forse meno libero, più direzionato...?
Penso che la libertà c'è sempre anche se considero che progettare a proprio scopo e progettare con un'azienda siano due cose molto diverse. Ci sono stimoli e soddisfazioni in entrambi i casi.
Alcuni progetti non hanno la necessità o l'essenza di essere riprodotti ed è giusto che rimangano come serie limitata o pezzi unici. Ma comunque sia, la serialità – pezzo unico, piccola o grande serie – è una componente che fa parte della costruzione di un progetto.
Tornando al Cuore di Bottiglie, non avrebbe nessun senso fare uno stampo di una bottiglia a forma di cuore, svanirebbe tutto la poetica del progetto e del messaggio.
Quando progetto per un'azienda mi piace capire qual è la sua tecnologia produttiva, quali i macchinari. I fattori sono poi infiniti per capire se bisogna adeguarsi ad un know-how acquisito o scombussolare la produzione.
L'autoproduzione su questo punto aiuta molto. Confrontarsi con artigiani, parlare con loro, capire il facile del difficile è un ottimo esercizio per poi progettare insieme ad un'industria.
Ma nonostante ciò, ho bisogno di una mia "indipendenza progettuale". Per me è fondamentale continuare a sviluppare progetti che rimangano al di fuori di un circuito industriale o economico.

Un esempio aziendale della tua spiccata capacità di lavorare con gli archetipi è l'esperienza avuta con Legnoart...
L'esperienza con Legnoart si può riassumere con il prodotto Coni Cos, una grattugia conica.
Sono partito dall'idea di contenitore del tipo "campana per formaggi" (cloche à fromages) e su una maggior efficienza d'utilizzo del prodotto. Con una mano tengo fermo l'oggetto, con l'altra mano grattugio il parmigiano, una ciotola come base ed estensione del cono raccoglie il formaggio. Gestualità e praticità che parte anche qui da un'osservazione e dall'esperienza del quotidiano.
Sono soddisfatto di questo progetto non solo perché è diventato il cavallo di battaglia di Legnoart ma anche in quanto può essere paragonato alla grattugia di Richard Sapper per l'Alessi. I due prodotti sono stati entrambi presentati al Macef di gennaio 2004. I pettegoli diranno che David ha copiato Goliath. Per quanto mi riguarda sono onorato di essermi avvicinato, inconsapevolmente, da un prodotto disegnato dalla mano di un maestro.

Tra i tanti c'è un tuo progetto che mi diverte molto, Tris che hai realizzato per Bosa. Di che tipo di esperienza è stata e di che tipo di contesto aziendale si tratta?
Il progetto Tris è nato per un concorso: il premio Macef-Design, organizzato nel 2002 dal portale aedo-to. In quella sede avevo proposto il progetto Tris, delle ciotole in ceramica dove la base era disegnata a forma di cerchio e di croce. Contenitori da una parte, gioco dall'altra.
Una comune ciotola in terraglia smaltata ha sempre una superficie grezza che corrisponde al suo punto d'appoggio nel forno durante la cottura. Ho voluto esaltare il punto d'appoggio e disegnarlo. L'azienda Bosa si è interessata al progetto nel 2004, con la creazione di una nuova collezione: Utility. Italo Bosa e Francesca Bosa sono persone appassionate e determinate, impegnate in una costante ricerca sul materiale. Ricerca in cui le difficoltà tecniche diventano sfide da sormontare. In sintesi è un'azienda familiare che punta sulla qualità e l'innovazione della ceramica.

Tra tutti i lavori che abbiamo solo citato in questa sede, il progetto per The Zazu forse merita un approfondimento...
L'azienda Luciano Duccetti srl rappresenta una realtà comune in Toscana: piccola-media azienda familiare con un'esperienza di 30 anni nella produzione di tessuto imbottito. Quel che diventa meno comune è che Fabrizio Duccetti, il titolare, chiede ad un suo amico – il sottoscritto – di ipotizzare un marchio, una collezione di nuovi prodotti, grafiche, stand ecc...
L'amico nel 2003 gli disse: "Proviamo...".
The Zazu non ha ancora compiuto 3 anni di vita come marchio che vede già i suoi prodotti esportati negli Stati Uniti e in Giappone con un logo registrato per tutti i paesi del mondo.
The Zazu rappresenta la mia prima esperienza sulla creazione di un marchio e di un'immagine coordinata. Oltre ad una continua consulenza con l'azienda, ho disegnato i modelli della collezione Funny. Cucce che rappresentano una natura artificiale in casa, elementi instabili, estranei ad un arredo d'interni. Sono dei giochi/ostacoli per animali urbani/domestici nostalgici di una natura svanita.

Siamo ormai alle porte del Salone del Mobile 2006 ed è forse scontato chiederti qualche anteprima. Di cosa ti stai occupando in questi giorni e a quali prossimi eventi presenterai i tuoi nuovi lavori?
Stiamo attualmente definendo un nuovo progetto – Kit – di complemento d'arredo con il marchio Duepuntosette dell'azienda Erreti. Sarà presentato al Salone del Mobile di Milano 2006. Si tratta di un mobile-mobile... Un progetto che prevede una flessibilità di montaggio e di collocazione spaziale. E' partito da un brief che l'azienda mi ha rivolto. Non ho voluto dare nessuna inutile spettacolarità al progetto, ma una versatilità e funzionalità sia produttiva che di utilizzo.
Sempre al Salone è prevista la mia partecipazione ad un altro evento sul quale però mi è stato chiesto di mantenere il silenzio stampa... Quindi in codici:
....................... work ....................... san ....................... aro ....................... gu ....................... nes ....................... stap ....................... tap .......................

Per un post-Salone già attivo (forse troppo): sono impegnato con il marchio The Zazu e partecipo alla seconda edizione di Vindesign. Quest'ultimo è un evento intorno al vino e agli alcolici – curato da Antonia Mealli – che si terrà a Pavia a maggio 2006. Il progetto proposto parte su una ri-definizione del cubetto di ghiaccio, ma sorpresa...
In parallelo, sto sviluppando diversi progetti di complementi d'arredo per un'azienda italiana, sto continuando la consulenza per l'azienda Erreti e per finire idee personali, esperimenti che continuo a mandare avanti con scadenze più elastiche...


Antonio Cos
Via Porpora 150
20131 Milano – Italy
tel/fax: +39 02733078
mobile +39 3280048153
e-mail: Antonio-Cos@tiscali.it
www.antoniocos.com


Erreti
www.erreti.com
Bosa
www.bosatrade.com
Legnoart
www.legnoart.it
The Zazu
www.thezazu.it
Habitat
www.habitat.net

Vindesign
www.vindesign.it


Ulteriori informazioni sul volume antologico di IdeaMagazine.net


Da maggio 2011, il testo della presente intervista è disponibile anche in versione cartacea nell'antologia Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net recentemente pubblicata da Franco Angeli nella Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale.
Compresa la presente, nel volume sono raccolte 30 interviste – pubblicate on line dal 2000 al 2010 – che offrono al lettore un interessante resoconto «fenomenologico» su tre ambiti operativi della cultura del progetto assai poco frequentati dalla «comunicazione» sul design: il «nuovo» design italiano, il progetto in Toscana, il design al femminile.

Interviste sul progetto.
Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net

Umberto Rovelli (a cura di)
Franco Angeli - Milano
Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale
1a edizione 2011 (Cod.7.8) | pp. 264
Codice ISBN 13: 9788856836714

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a cura di: 
Umberto Rovelli 

 IM Book 
Da maggio 2011 è disponibile il volume antologico «Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net» in cui è stata inserita questa intervista
I.

II.
III.

IV.
V.

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VII.

VIII.
IX.

X.
XI.

XII.
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