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 DESIGN ANONIMO IN ITALIA. OGGETTI COMUNI E PROGETTO INCOGNITO


Nel moltiplicarsi di studi sulla fenomenologia del design, l'ultimo scritto di Alberto Bassi stacca dal fondo dell'indifferenziato quella silenziosa – ma potente – quantità di oggetti di cui l'autore è restato nella dimensione del dietro-le-quinte, lasciando così che l'evidenza dell'«uncommon beauty of common things» (Polano) parli da sola della sua efficacia prima ancora che delle sue memorie e dei suoi valori iconici.

Evidentemente, come avverte l'Autore, «non tutti gli oggetti [hanno avuto ed] hanno rilevanza dal punto di vista del design, per qualità, metodo e significato» ma per gran parte di loro sussiste tuttavia una diffusa condizione di «facilità e naturalezza, [...] una sorta di vasariana "sprezzatura"» in cui si trasferiscono le necessità fondanti del quotidiano. Perché in questi oggetti – che erroneamente usiamo definire banali – ricorrendo alla definizione di Gregotti "il significato è tanto più intenso quanto più è connesso alla ragione strutturale del suo essere per il mondo".

Allineandosi al presupposto che l'anonimato implichi l'unico necessario requisito della non conoscenza (sia essa volontaria o involontaria), alcuni oggetti appaiono di fatto più anonimi d'altri in virtù della loro invasiva sovra-astanza nel quotidiano rito d'uso; e la loro individuazione non attiene pertanto ad un mero problema d'identità ignota, quanto piuttosto l'intenzione di recuperare all'oggetto quella «componente auratica» che appartiene al valore culturale noto e autenticato di un manufatto.

Obiezione immediata del lettore è che sorga qui una contraddizione: «eleviamo il design anonimo alla categoria del progetto colto e automaticamente cancelliamo il carattere che lo ha reso attraente» conquistandolo ad una virtuale galleria di progetti d'autore suscettibili, in quanto tali, di essere, almeno idealmente, dominati. Il design anonimo si dimostra, infatti, limitrofo al concetto di «design inconscio», ovvero quello che per Dorfles è privo di «grandi pretese artistiche» (sempre che ciò sia possibile) ed in cui il processo progettuale risponde (e corrisponde) esclusivamente alla propria funzione, risultando alla fine confluenza di contributi disparati in grado di dare vita ad un progetto collettivo «transtemporale». Il nemico da battere è, dunque, l'autoreferenzialità della firma autoriale che minaccerebbe la schiettezza funzionale dell'oggetto d'uso, la sua priorità di adeguatezza allo scopo, la sua capacità di «narrazione esplicita delle tecnologie». Un concetto già sovraesposto nella teoria lecorbusiana, che tendeva dichiaratamente a preferire l'anonimo perché ha il coraggio di eludere l'aura, il lusso, la fascinazione elitaria del personalismo, le «vertigini di autocelebrazione», a favore di una verità squisitamente strumentale: nella rivendicazione che «una sedia non è un'opera d'arte; non ha un'anima; è uno strumento per sedersi» c'è tutto lo spirito polemico e rivoluzionario di un paladino del funzionalismo scevro dalla frivolezza dell'apparire e c'è il richiamo, quanto mai attuale, alla moralità del design che deve smettere i lustrini del palco per entrare nelle case e, finalmente, limitarsi (!) a funzionare bene.

Dalle riflessioni ultra-funzionaliste di Le Corbusier all'istituzione del «Compasso d'oro a ignoti» di Munari (1972), passando per Giedion, Pagano, il «design senza aggettivi» di Ponti e gli oggetti comuni dei Castiglioni, difendere l'anonimo diventa in questo senso scelta di posizione etica rispetto alle mistificazioni ed alle prospettive aperte da un secolo sul tavolo del design: ritorna, cioè, questione di «evidenza materiale» al servizio dell'uomo dopo i manipoli dell'iper-simbolizzazione, associandosi ad una «costanza d'uso che, grazie a una certa neutralità stilistica, assicura loro maggior resistenza nel tempo» e, non di rado, una fertilissima potenzialità creativa. Il nodo critico si sposta da ciò che merita il titolo di «oggetto di design» per elezione d'accademia a ciò che lo è, invece, senza margini d'interpretazione, per acclamazione di pubblico; cosa che resta, in fin dei conti, il solo parametro di giudizio congruente con le premesse. E il cerchio virtuoso si può chiudere con l'auspicio-profezia di De Fusco secondo cui, non appena l'utente si riappropria dell'oggetto-utensile «non spetterà più allo storico o al critico avallare questa o quella tendenza... meno che mai dovrà continuare a stendere inutili agiografie di aziende produttrici e designer». L'analisi di Bassi arriva così ad individuare una singolare conseguenza dell'anonymous design: bypassare lo strapotere mediatore (e mediatico) del «critico sapiente» nella dialettica di produzione e consumo d'oggetti configura finalmente una nuova fase nella storia dei prodotti ed una poetica che potrebbe definirsi in qualche modo come neo-purista. Purista perché, in opposizione alla visione ideologica delle cose che ha viziato il settore dagli anni Ottanta in poi – fino agli epigoni contemporanei della virtualizzazione –, solleva un appassionato proclama contro quel «vocabolario di parole congelate nella materia» (Carmagnola) che aveva finito col devitalizzare l'oggetto d'uso, trasferendone altrove il senso dell'identità. In quest'ottica si chiuderebbero i conti con gli artifici di una certa sovra-articolazione delle forme, rivedendo i termini dell'intelligenza e dell'intelligibilità del mondo delle cose che deve garantire risposte al benessere prima ancora che occuparsi della «pulchritudo perennis»: «i fenomeni dell'estetizzazione possono [infatti] presentare una feconda ambiguità: possono contenere ancora occasioni conoscitive, ricerche sul valore o il significato del visibile, così come possono cadere nel vicolo cieco dell'effimero» (Carmagnola).

Come a dire che l'anonimo epifanizza la responsabilità del design proprio in questo atto di spostare il designer in secondo piano. Quando il culto del bel gesto progettuale sparisce è l'esperienza dell'uso a fare la differenza: essa diventa «valore d'uso».

L'inventario di oggetti disvelati dall'Autore (che segue una tripartizione classificatoria in anonimo di tradizione, anonimo tout court e anonimo d'autore) è una ricognizione che diverte per genio del banale e stupisce per quantità. Una rassegna di esperienze-oggetto che non risparmia nostalgie: dal Borsalino di fine Ottocento e gli stra-classici Persol del 1938 alla tanica Pirelli, all'interruttore banale, all'odiato guscio per il telecomando, ripescando l'Apecar semi-leggendaria, i doposci Moon Boot della nostra infanzia, i fiammiferi Saffa, la colla Coccoina, il contenitore in plastica della Coppa del nonno, l'irrinunciabile Superga bianca, la Moka Bialetti di sempre, la plastilina DAS, l'inconfondibile tazzina Illy, la Tratto Pen di tutte le adolescenze o il brevetto della cucitrice Zenith, delle viti Brugola o del lucido nero telefonico Stet. Un'operazione di recupero della memoria che, mentre nell'intenzione lascia sedimentare qualsiasi pregnanza simbolica o sovrastrutturale dagli oggetti elencati, li sta però già consegnando ad una dimensione definitiva, a buona ragione archetipica al pari di un'immagine di Marilyn.

Si tratta ogni volta di paradigmi epocali che, in un'apparente semplificazione al banale, riassumono i termini della nuova condizione estetica contemporanea; ma si noti, tuttavia, che quel carattere «banale» col quale erroneamente liquidiamo spesso l'anonimo, lungi dal pertenere alla qualità del progetto, resta di fatto la reazione dell'utente al grado estremo di familiarità innescato dall'oggetto. Che è, prevedibilmente, elemento di virtù massima per un oggetto d'uso quotidiano. Bassi ritorna bene sul tema: una volta entrati nell'uso, questi oggetti stabiliscono a loro volta dei rituali indotti, descrivono una fenomenologia del gusto, e fondano standard intramontabili per forma e per tecnica; dal punto di vista critico, l'attenzione deve fermarsi sul loro potere di generare tipologie oggettuali autonome in grado di rimpiazzare la forza di un brand con la logica schiacciante della piacevolezza formale, che è poi la cifra di nascita del design storico.

I pregi del libro non si limitano alle logiche sottili che abbiamo tentato di riportare nell'economia di una recensione. In tanta letteratura sul design che si viene producendo in questi ultimi anni, oscillante tra gli effetti immediati (o presunti tali) del mercato e quelli futuribili, tra nostalgie e speranze, esperienze ed attese, dubbi e incondizionata fiducia nella tecnoscienza, insomma tutta materia ideologica, nel migliore dei casi «filosofica»; il testo di Bassi si distingue per essere l'opera di uno storico autentico che basa le sue interpretazioni sulla concretezza della cultura materiale.


Francesca Rinaldi architetto, dottore di ricerca in "Storia e Critica dell'Architettura" presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II", dove collabora alle ricerche coordinate dal prof. Renato De Fusco. Borsista dell'Istituto Italiano degli Studi Europei. Segretaria di redazione della Rassegna Aniai. Suoi saggi ed articoli sono apparsi su riviste di architettura e critica fra le quali Op. cit., Costruire, Corriere d'Europa, Aion. Ha pubblicato, Il surreale e l'architettura del Novecento (Franco Angeli 2004) e – insieme ad Alessandra de Martini e Rosa Losito – è curatrice del volume Antologia di saggi sul design in quarant'anni di Op.cit. (Franco Angeli 2006).






Design anonimo in Italia. Oggetti comuni e progetto incognito
di Alberto Bassi
2007, Electa, Milano

Introduzione
Design anonimo
Anonymous, cultura e prassi del progetto
Anonimo e design contemporaneo
Inventario del design anonimo in Italia
Anonimo di tradizione
Anonimo
Anonimo d'autore
Bibliografia essenziale
Indice dei nomi


Anonimo di tradizione
  • Fiasco per vino
  • Litro, contenitore per vino
  • Sedia chiavarina
  • Sigaro toscano
  • Cappello di feltro Borsalino
  • Coppola
  • Pezzotto valtellinese
  • Ciabatte friulane
  • Sedia pieghevole da osteria
  • Sedia Marocca
  • Caffettiera napoletana
  • Servizio da tavola, bianco e oro

  • Anonimo
  • Cono per gelato
  • Bicicletta militare
  • Scarpa di tela 2750
  • Rubinetteria Roma
  • Colla solida Coccoina
  • Tram serie 1500
  • Fiammiferi cerini
  • Poltrona 904
  • Lampada Luminator
  • Penna stilografica Extra faccettata
  • Sgabello elastico 50 C
  • Caffettiera Moka Express
  • Occhiali da sole 649
  • Orologio Radiomir
  • Poltrona pieghevole da campo
  • Poltrona Tripolina
  • Sanitari Montebianco
  • Motore ausiliario Mosquito
  • Cucitrice Zenith 548
  • Cestino a filo
  • Contenitori in plastica bicolore
  • Valigetta 24 ore
  • Apparecchio telefonico
  • Casalinghi in plastica Kartell
  • Libreria Congresso
  • Pentola a pressione
  • Macchina per caffè espresso E61
  • Plastilina DAS
  • Classificatori metallici
  • Giocattoli di gomma Walt Disney
  • Tappo apribottiglia
  • Ciclomotore Ciao
  • Doposci Moon Boot
  • Packaging Coppa del nonno
  • Reti da cantiere Gigan
  • Guscio per telecomando
  • Vite Polydrive
  • Anonimo d'autore
  • Tuta
  • Bottiglia Campari Soda
  • Elettrotreno ETR200
  • Motofurgone Ape
  • Penna stilografica Aurora 88
  • Distributore di chewing gum
  • Packaging per pasta
  • Contenitori per liquidi
  • Portadocumenti da tavolo
  • Apparecchio telefonico
  • Teleindicatori alfanumerici
  • Bicicletta Graziella
  • Mangiadischi GA 45 Pop
  • Interruttore rompitratta
  • Carrello portaoggetti Boby
  • Portascopino Cucciolo
  • Tratto Pen
  • Tazzina per caffè
  • Moscardino
  • Contatore elettronico
  • testo: 
    Francesca Rinaldi 

    Il testo contenuto in questa pagina è stato originariamente pubblicato su Op.cit.* 130, settembre 2007.

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    XXVI.
    XXVII.

    XXVIII.
    XXIX.

    *Diretta ininterrottamente dal 1964 da Renato De Fusco, Op.cit. è la rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea edita da Electa Napoli





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