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 LA REGLE DU JEU. DESIGN TRA ESTETICA E PERIZIA TECNICA
 Intervista a Marc Sadler

Marc Sadler (Innsbruck – Austria 1946). Cittadino francese, apolide in senso lato, si è dedicato soprattutto al settore sportivo, interesse nato dalla collaborazione con Caber (successivamente Lotto) con la quale, tra l’altro, ha brevettato negli anni ’70, uno scarpone con scafo simmetrico. Vive attualmente a Milano da dove svolge la sua attività di consulente per aziende dell’arredamento, dei piccoli e grandi elettrodomestici, dell’illuminazione, dei prodotti più tecnici, e dello sport. La provenienza dal settore sportivo, dove la ricerca e sperimentazione di nuovi materiali e processi produttivi è più diffusa, gli ha consentito di esportare conoscenze in settori dove il design ha un significato essenzialmente circoscritto all’estetica. Nel campo dell’interior e del furniture design ha collaborato con importanti aziende internazionali come Cassina, Tecno, Boffi, Flos, Fiam, Foscarini, Martinelli Luce, Caimi Brevetti, Graepel, Fabbian, Kartell, Magis, Skitsch. Pluripremiato con riconoscimenti nazionali ed internazionali, il suo Motorcyclist’s Back Protector (paraschiena disegnato per Dainese) è nella collezione permanente di design del MoMA di New York e la Mite di Foscarini fa parte della collezione di design del Beaubourg di Parigi. Nel 1994, 2001 e 2008 ha vinto il Compasso d’Oro ADI con Drop 1 di Flos, Mite e Tite di Foscarini e con Big di Caimi Brevetti.


Uscito dall’Ecole Nationale Supérieure des Arts Décoratifs nel 1968 vinci un premio di design – il Brook Stevens – ed entri a far parte del Design Center 1 di Parigi, uno dei primi gruppi associati di designer francesi. Poiché raramente i fatti e le tempistiche sono casuali, se per ognuno di noi qualcosa – al di là dell’indubbio talento personale – può essere attribuito alla formazione, cosa ritieni di dovere alla scuola che hai frequentato prima di avviarti alla professione?
L’opportunità di fare del design. È stato il primo corso specialistico di design industriale dell’Università pubblica in Francia (si chiamava Esthétique Industrielle), era un corso diretto da Roger Tallon – il papà del TGV – per non più di una decina di studenti.

Ricordi qualche particolare figura o servizio – modalità d’insegnamento, laboratori, stage proposti, ecc. – che abbia particolarmente influito sui tuoi progressi successivi?
I laboratori erano nuovi di zecca e molto ben equipaggiati, gli insegnamenti ben connessi all’industria di allora – mi sono laureato nel 1968! – e il corso era molto orientato alla realizzazione dei modelli.

Più in particolare, ritieni che il percorso formativo svolto abbia contribuito a determinare un tuo peculiare modus operandi nell’affrontare il progetto?
È stato un’ottima incubatrice. C’era un grande entusiasmo e molta energia di fronte ad un percorso completamente nuovo e pieno di incognite. Eravamo dieci giovani studenti fortemente motivati, forse un po’ presuntuosi, pronti a cambiare il mondo...

Sempre alla fine degli anni ’60 uno dei tuoi più spiccati interessi è la ricerca e sperimentazione sulle materie plastiche e le sue possibili applicazioni. Circa un decennio prima, l’11 marzo del 1954, Giulio Natta aveva appuntato sulla propria agenda di laboratorio: «Fatto il polipropilene». Poco dopo averne realizzato il processo di sintesi in laboratorio, Natta registrò il brevetto e lo sviluppò industrialmente. Nei primi anni ’70 l’Italia è così uno dei paesi all’avanguardia nella produzione di prodotti in materie plastiche ed un tuo progetto sperimentale – uno scarpone da sci in materiale termoplastico – ti porta ad accostarti non solo al settore sportivo ma anche alle aziende italiane realizzando con Caber un brevetto – il sistema del guscio simmetrico – che rimarrà a lungo un successo di vendita. Questo breve antefatto per giustificare una doppia domanda. La prima: quali differenze hai notato allora, designer poco più che ventenne, tra l’approccio aziendale francese e quello italiano?
I francesi erano e sono tuttora meno abituati ad utilizzare i consulenti esterni. Di solito i designer sono figure professionali integrate, con tutti i pro e i contro del caso. In Francia le industrie sono generalmente più grandi e strutturate, mancano quelle micro realtà industriali tipicamente italiane che sfuggono alle logiche elefantiache delle grandi strutture. In Italia la cultura del design, nel vero senso del termine, è molto più radicata e le aziende, quand’anche molto piccole, non esitano a servirsi di consulenti esterni in questo senso.

La seconda: quali differenze avverti oggi tra il modo di progettare di quel periodo e l’attuale, soprattutto in relazione alla minore capacità di «resistenza» concorrenziale dei brevetti odierni rispetto al passato?
Ultimamente, grazie o per colpa della crisi, ritrovo sempre più spesso l’atmosfera degli anni ’70. Si ritorna a parlare della necessità di investire seriamente, dell’importanza della verticalizzazione produttiva intorno al prodotto. Il Made in Italy nella sua accezione purista è di nuovo un fattore di orgoglio progettuale e produttivo. Sembra un nuovo dopoguerra!

Leggere oggi le vicende seguite alla tua scelta di stabilirti in Italia dà l’idea di come la professione del designer si sia evoluta rendendosi assai più complessa rispetto ai primi decenni del dopoguerra. Ad Asolo, anche a causa degli impegni sempre più stretti con aziende italiane, hai creato uno studio attrezzato di CAD e CAM 3D, organizzando, tra l’altro, uno staff strutturato anche a livello di modelleria e sviluppo tecnico, così da offrire ai clienti un «pacchetto completo» di servizi, dall’ideazione e progettazione allo sviluppo del prodotto. Una crescita professionale in senso anche strategico e «manageriale» che avrà sicuramente determinato, da parte tua, una diversa gestione del processo progettuale, ovviamente più «mediata» che in passato. Al fine di mantenere costante il livello qualitativo dei vari progetti in cui sei impegnato avrà sicuramente giovato reperire collaboratori adeguati, ma credo soprattutto aver individuato i momenti e le fasi nelle quali la presenza in prima persona si riveli indispensabile. Ora, ovvero dopo la creazione dello studio in Italia – oggi a Milano – e delle filiali a New York, Hong Kong, Taiwan e Venezia – come riesci ad evitare i pericoli insiti nella moltiplicazione dei progetti e richieste avvenute negli ultimi anni?
Non ci sono riuscito! La realtà mi ha dimostrato che l’apparenza inganna e che molto spesso l’abito non fa il monaco. Difficile giudicare a priori la qualità di un progetto in quanto è difficile giudicare a priori le modalità di lavoro delle aziende, la compatibilità con le proprie e, nondimeno, la capacità della stessa azienda di dare al progetto il «respiro commerciale» che può eventualmente meritarsi. In parole povere, non ci sono elementi certi – o almeno io non li ho ancora individuati – per poter valutare in anticipo gli esiti dei progetti. Quindi cerco di affrontarli tutti, o almeno tutti quelli che sono fisicamente o moralmente in grado affrontare.

Qualche tempo fa, nel corso di una presentazione del volume Progetto e passione avvenuta nel 2001, Enzo Mari ha dichiarato di vivere una realtà di espropriazione del progetto in quanto la fasi realizzative del prodotto accadono altrove seguendo logiche impenetrabili che portano, quasi fatalmente il progetto a perdersi strada facendo. Per certi aspetti il tuo percorso è in antitesi con quello di Enzo Mari in quanto fin dai primi progetti la tua passione per la ricerca ti ha portato spesso ad intuire la crescente pervasività della questione tecnica all’interno del progetto. Ciò ti ha forse condotto a vedere nelle nuove tecnologie di lavorazione e nella sperimentazione/creazione dei nuovi materiali una grande risorsa.
È vero che, come dice Enzo Mari, spesso le fasi realizzative del prodotto influiscono sul progetto facendogli mutare percorso, ma penso che ciò non accada a causa di logiche impenetrabili ma, molto più semplicemente, per i vincoli dettati dalle tecnologie industriali, sempre più sofisticate e specializzate. Il designer industriale lavora con l’industria, e deve fare i conti con i vincoli – spesso opportunità – che questa impone. Diversamente fa un altro mestiere, che si chiama «artigiano» o «artista»...

Mi sembra però di rilevare nella produzione odierna un pericolo strisciante nella crescita di ruolo e pertinenza del trasferimento tecnologico. A mio parere stanno emergendo, soprattutto in quest’ultimo decennio, connotati operativi nella pratica del progetto di design che quasi inevitabilmente portano il designer a sentirsi professionalmente «eterodiretto». In particolare quando i prodotti, poiché già coinvolti con processi innovativi nati per risolvere problematiche afferenti ad altri settori, manifestano meno urgenze di «differenziarsi» rispetto a prodotti che utilizzano tecnologie consolidate. Al punto che l’intervento (e il costo) del designer può perdere rilevanza agli occhi dell’imprenditore. D’altra parte, la responsabilità del prodotto – semplificandolo in «figure» – coinvolge sempre più sovente almeno tre soggetti: ingegnere, imprenditore e designer. Figure professionali che, probabilmente, sono da intendersi anche gerarchicamente in questo medesimo ordine. Col rischio non lieve che questa deriva insieme materiale e tecnologica – quando va bene – si traduca sì in valorizzazione delle performances ma comporti quasi inevitabilmente una deprivazione di senso proprio del prodotto.
Nella mia esperienza, fortunatamente, la gerarchia dei ruoli è molto meno rigida, cosa che rende ogni progetto una storia a sé. Ci sono imprenditori con velleità artistiche, che richiedono le consulenze ai designer ma pretendono di sapere «cosa bisogna fare»… Ci sono ingegneri «INGEGNERI», rigidi ed arroccati sulle loro granitiche certezze ingegneristiche, ma ci sono anche aziende dove tutte queste figure professionali collaborano fattivamente, ciascuno con le proprie specifiche competenze, per il «bene comune».
Ben più gravi mi sembrano invece i casi dove le figure professionali mancano: ho vissuto esperienze di grosse multinazionali o aziende gestite da gruppi finanziari dove si sente la mancanza della figura di imprenditore che «paga e decide». Spesso le decisioni riguardo al prodotto – e a monte, riguardo al progetto – sono demandate agli uffici marketing, culturalmente lontani dall’avanguardia progettuale generatrice di innovazione. Invece di limitarsi ad usare i fattori legati al prodotto per stimolarne la migliore commercializzazione – attività peraltro estremamente difficile e sofisticata – il marketing spesso interviene a monte, sulle direttive progettuali, influenzandole sulla base del mercato esistente.

La tua storia professionale è nel segno di una impressionante versatilità. Dopo essere emerso, in particolare, nel settore del design sportivo – che ancor oggi ti vede molto impegnato – hai progettato con successo nel settore dell’arredamento, dei piccoli e grandi elettrodomestici, dell’illuminazione, e, non ultimo, nel tableware con la toscana Richard-Ginori. Molti degli autori incontrati in questi anni ritengono che ancora oggi, per una sorta di radicata disinformazione culturale, il design system non recepisca positivamente il designer «multivalente». Anzi, traducendo quasi automaticamente la «versatilità» in «dilettantismo» l’imprenditore sovente chiama e cerca un determinato designer soprattutto quando riesce ad identificarlo in un ruolo preciso. In che occasione e come hai vissuto il passaggio a settori forse addirittura ipersaturi come quelli dell’illuminotecnica – dove oggi giocano un ruolo non secondario le prospettive di vendita dell’architettura specialistica e, quindi, dei loro progettisti – e dell’arredamento?
Penso e spero che il binomio «versatilità = dilettantismo» sia oramai circoscritto ai paesi del Far East. Com’è noto la mia esperienza va in senso opposto, e proprio alcune tecniche o lavorazioni acquisite in un certo settore sono state preziosissime in ambiti diversi. È appunto il caso dell’illuminotecnica, dove ho acquisito una certa notorietà con il lavoro di Foscarini e le lampade Tite & Mite (fibra di vetro lavorate insieme al kevlar e alla fibra di carbonio con la tecnologia del rowing), figlie di esperienze lontane con mazze da golf e racchette da tennis.
A mio avviso succede piuttosto – e meno male che lo pensano anche tanti imprenditori – che l’estrema specializzazione di un designer in un settore rischia di inaridire la sua vena creativa.

Pur essendoci patenti ragioni per definire i designer – come il poeta di Pessoa – «fingitori», accade talvolta d’incontrare particolari produzioni in cui – per determinate occasioni anche fortuite – il ruolo del designer, e i prodotti che ha contribuito a creare, assumano connotati d’indubitabile «necessità». Una triade ideale comprende la «stecca per le gambe» realizzata nel ‘42 dai coniugi Charles e Ray Eames; la «centina di protezione», ovvero la cabina per il guidatore nei trattori, ideata nei primi anni ’60 da Pio Manzù; il «paraschiena» per motociclisti di Dainese su cui tu stesso ti sei espresso affermando che «l’incipit era “fare del bene”». Cosa puoi raccontare di questo prodotto che, ormai, fortuna e riconoscimenti mondiali hanno trasformato in un «mito» per molti giovani designer?
La gratificazione non è arrivata attraverso il riconoscimento dell’aspetto formale (anzi, all’inizio la gente diceva che era brutto), ma perché salvava la vita. In azienda arrivavano tante lettere di ringraziamento di persone che lo avevano provato con evidente giovamento. Ricordo la lettera del padre di un ragazzo che era in ospedale per aver avuto un incidente in moto: indossava la nostra tuta e si era tagliato i tendini del braccio. Tuttavia il padre ci ringraziava perché il figlio non era morto, e nello stesso tempo ci consigliava di «studiare» un sistema per proteggere anche gli arti superiori. Così abbiamo implementato il parco delle protezioni. È pur vero che, perché un qualcosa abbia una diffusione di massa, deve avere una valenza estetica riconosciuta, altrimenti viene rifiutata dal mercato. Non si può prescindere dall’estetica di un prodotto.

Anche più tardi sei intervenuto nuovamente su una branca del design, quella medicale, che di certo non si affronta per cogliere riscontri o apprezzamenti dal grande pubblico. Soprattutto in Italia la peculiare interpretazione del termine «design» – riservata quasi esclusivamente al settore del furniture, o poco più – emargina oltremodo chi opera in questo campo. Tant’è che Airstream, il letto da ospedale in materiale termoplastico iniettato a gas realizzato con Faram, è tuttora assai meno noto del tuo paraschiena e non sempre viene associato al tuo percorso di designer sportivo pluri-brevettato contraddistinto dalla tecnicità. Ad esser cinici la questione dovrebbe essere, ma chi te lo ha fatto fare? Preferisco però domandarti: che tipo di esigenze ti sei proposto di risolvere con Airstream?
La mia opinione è nota: il design è ingrediente indispensabile per ogni branca della produzione industriale, dunque anche i letti di ospedale. Qualunque prodotto ha bisogno dell’intervento del designer che deve disegnarlo affinché sia bello e risponda alle logiche della produzione industriale (prezzo, distribuzione, ecc.). Siamo purtroppo sommersi da oggetti funzionali ma oggettivamente orrendi e questo è un problema che personalmente vivo male. Dobbiamo educare le persone al bello anche negli oggetti di uso comune e quotidiano, dobbiamo far capire loro che il brutto – concetto non così aleatorio o soggettivo come si può credere – imbruttisce e intristisce la nostra vita.

Sovente ci si dimentica di quanto sia importante la capacità e le occasioni di «relazione» nel lavoro del designer. Questo nei vari sensi che possiamo dare alla parola: talento connettivo, savoir-faire, capacità seduttiva, erotismo, disposizione all’ascolto, carattere personale, ecc. La storia del design è costruita di lunghi patti collaborativi e, per molti giovani designer costretti sovente a mutare interlocutori per poter realizzare le proprie idee, dieci anni di relazione designer/azienda rappresentano, forse, una pia speranza. Il recente decennale del tuo rapporto con Foscarini ha visto la riedizione di Mite: un prodotto esemplare – premiato nel 2001 con il tuo secondo Compasso d’Oro ADI dopo quello ottenuto per la lampada Drop 1 di Flos del 1994 – che è stato frutto di una ricerca durata circa due anni per rendere pienamente giustizia all’innovativa idea di unire alla fibra di vetro il filo di carbonio o di kevlar. Il mix di sobrietà ed estrema propensione arredativa del prodotto è stata probabilmente una delle ragioni del successo di Mite, ma anche delle successive Twiggy, See You e Tress. Tutte fortemente caratterizzate ma intelligentemente non eccessive. E in generale non c’è – forse con la sola eccezione della sedia Phalène – un tuo prodotto in cui il contenuto formale debordi dai limiti dell’idea matrice del progetto. Nei tuoi prodotti traspare cioè una tale chiarezza di disegno – probabilmente portato di una spiccata chiarezza ideativa originaria – che molto spesso chi li osserva è portato ad illudersi che siano anche il frutto di una semplicità realizzativa. Sei disposto a narrare un aneddoto significativo di quanto tortuoso sia stato il cammino per ottenere la «semplicità» di Mite o della sua ultima versione celebrativa, la Special Fusion?
Come spesso accade il progetto ha una genesi «curiosa», visto che è nato da una serie di incontri quotidiani delle 6 del mattino sul Vaporetto di linea di Venezia – dove all’epoca vivevo – con i titolari della Foscarini che da Murano si recavano ogni giorno in azienda in terra ferma.
Da «ciacole» informali era emerso il desiderio di creare qualcosa di diverso dai prodotti ai quali erano abituati, con un materiale estraneo al vetro che, per ragioni geografiche, ma non solo, era evidentemente il più accreditato.
La scelta di materiali compositi era agli antipodi rispetto alla loro connotazione tipicamente veneziana – anzi «muranese» –, con la sua grande sensibilità nei confronti della qualità del vetro, e l’intento fu quello di trovare un trait d’union fra le tecniche impiegate per il vetro e il materiale che avevo intenzione di proporre, da me già ampiamente utilizzato nel settore sportivo. La Foscarini è uno di quei fulgidi esempi di imprenditorialità illuminata sogno di tutti noi designer. Fra i clienti è uno di quelli che più mi ha permesso di esprimere al meglio una mia certa vena sperimentale e al quale – spero – ho regalato qualche soddisfazione al di là del successo economico dei prodotti realizzati insieme.

Nel 2008, un terzo Compasso d’Oro ADI ti viene riconosciuto per un progetto in cui giocano un ruolo importante ricerca, intuizione e un particolare sistema brevettato «antisgancio». Ma si tratta anche di un’ulteriore conferma delle tue capacità di rendere assai versatili prodotti con caratteristiche particolarmente marcate sotto il profilo tecnico. Come tu stesso affermi, la libreria Big è il risultato di una esagerazione. Dimensionale, di finiture, di prestazioni: «Big stupisce per i suoi virtuosismi tecnici, non ci sono soluzioni di continuità e punti di debolezza strutturale». Ma anche qui i contenuti di innovazione tecnologica – ed è questa la peculiare eccellenza – arrivano talmente filtrati e mediati da quasi contraddirsi proponendosi, forse più immediatamente, sotto le mentite spoglie di un’allusione. In Big non troviamo infatti alcuna aura riconducibile all’elegante gelività high tech dei decenni passati bensì è assai più agevole rinvenire nella libreria il robusto «calore» della rivisitazione in chiave metallica di più tradizionali strutture lignee tanto il tema tecnologico è enfatizzato e, al contempo, dissimulato. Pulita e vigorosa Big conserva – pur nell’asciuttezza e laconicità spaziale consentita dal materiale – un afflato domestico precluso a moltissimi prodotti concorrenti. Era questo l’effetto principale che intendevi ottenere o si tratta di una più o meno naturale conseguenza di altri obiettivi perseguiti nel progetto?
Big nasce dall’obbiettivo di realizzare un prodotto trasversale, parimenti collocabile nell’ufficio come all’interno di una casa, funzionale ma allo stesso tempo accattivante dal punto di vista estetico, performante sotto l’aspetto professionale ma dotato di quel sapore «che fa casa» per quel che riguarda lo stile.
L’idea di partenza era quella di realizzare un prodotto «loft», esagerato nelle dimensioni e con grande resistenza al carico ma che allo stesso tempo evocasse semplicità, luminosità e pulizia formale, un oggetto che ricordasse insomma in qualche modo lo stile degli armadi degli anni Sessanta di Lips Vago.
Così è nata Big, con la gran luce tra i montanti dei ripiani (160 cm) e la sua straordinaria resistenza meccanica che permette di elevare la portata fino a 120 kg, il tutto ottenuto grazie all’applicazione di una tecnologia mutuata dal settore sportivo (pattini in linea), che applicata a Big permette di realizzare il complesso incastro doppio che tiene insieme montante e ripiano senza pesare sulla struttura e sulla resa finale estetica del prodotto.

Nel 2008, sei stato ospite di uno dei più importanti eventi nazionali dedicati alla formazione design: Cre@ctivity+IDEA’08 che con il gemellaggio con la Biennale Internationale Design 2008 di Saint-Étienne ha reso omaggio anche ad una realtà che – visti gli effetti sulla città – potrebbe far presagire un nuovo ruolo assai dinamico ed incisivo delle Scuole di Design sul mercato. La manifestazione toscana è stata occasione di mostre, incontri, workshop su vari aspetti dell’attività culturali e operativi del designer. Un tema di tale complessità non si può ovviamente esaurire in qualche battuta, ma, dal tuo punto di vista, considerando l’ampio spettro sia di competenze richieste che di possibilità aperte oggi alla professione, quali sono i principali nodi irrisolti dal sistema formativo nei confronti dell’attuale mercato?
Le scuole, Università comprese, sono ancora troppo lontane dalle realtà produttive. C’è uno scollamento generale tra la teoria e la pratica, senza contare che a mio avviso mancano gli insegnamenti base specifici delle tecnologie a disposizione dell’industria. Mi spiego meglio: bene che gli studenti conoscano la storia del design – cosa che, tra l’altro, non è così scontata – ma trovo sconfortante che non distinguano fra termoformatura e iniezione, piuttosto che tra fusione e coniatura. In pratica bisognerebbe fondere l’insegnamento della storia e della teoria con la «perizia industriale» degli antichi e declassati istituti tecnici e scuole professionali.

Sempre occasionate da idee forti, percepibili chiaramente anche da chi non si occupa quotidianamente di design, due tue recenti produzioni furniture sembrano aprire un approccio progettuale forse non immediatamente espresso fino ad oggi. Sia in Sack che in Ics, entrambi realizzati nel 2009 per il nuovo brand Skitsch, si avverte un atteggiamento ironico e ludico predisposto a far scaturire nella consuetudine tipologica una scintilla d’ilarità e magia. Sack sembra riportare all’interno del soggiorno domestico adulto l’informale evocazione di adolescenziali campeggi, mentre col tavolo Ics metti in campo la tua ormai consueta perizia tecnica al servizio di un gioco di prestigio statico esaltato dalla trasparenza del cristallo temperato. Questa sommessa tonalità ludica cui sto alludendo è sempre stata parte del tuo fare progetto o è una saliente peculiarità della tua maturità progettuale?
Forse sono semplicemente stufo di essere interpellato per i progetti impossibili per colpa di questa nomea di «designer tecnico». Ecco perché provo piacere anche nell’affrontare progetti di design puramente estetico che non richiedono chissà quali mutamenti delle regole del gioco.



Marc Sadler
studio@marcsadler.it
www.marcsadler.it


Alu
www.alu.com
Aprilia
www.aprilia.it
Axa
www.axasanitari.it
Boffi
www.fratelliboffi.it
Busnelli Gruppo Industriale
www.busnelli.it
Buderus
www.buderus.it
Caimi Brevetti
www.caimi.com
Dainese
www.dainese.com
Danese Milano
www.danesemilano.com
Désirée / Gruppo Euromobil
www.gruppoeuromobil.com
Ernestomeda
www.ernestomeda.it
Fabbian
www.fabbian.com
Faram
www.faram.com
Lema
www.lemamobili.com
Liv'it by Fiam
www.livit.it
Flos
www.flos.com
Flou
www.flou.it
Foscarini
www.foscarini.com
F.lli Guzzini
www.fratelliguzzini.com
Ideal Standard
www.idealstandard.it/
Iseo Group
www.iseo.eu
Kerasan
www.kerasan.it
Karol
www.karol.it
Martinelli Luce
www.martinelliluce.it
Riva 1920
www.riva1920.it
Robots
www.robots.it
Serralunga
www.serralunga.com
Skitsch
www.skitsch.it
Ycami
www.ycami.it


Ulteriori informazioni sul volume antologico di IdeaMagazine.net


Da maggio 2011, il testo della presente intervista è disponibile anche in versione cartacea nell'antologia Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net recentemente pubblicata da Franco Angeli nella Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale.
Compresa la presente, nel volume sono raccolte 30 interviste – pubblicate on line dal 2000 al 2010 – che offrono al lettore un interessante resoconto «fenomenologico» su tre ambiti operativi della cultura del progetto assai poco frequentati dalla «comunicazione» sul design: il «nuovo» design italiano, il progetto in Toscana, il design al femminile.

Interviste sul progetto.
Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net

Umberto Rovelli (a cura di)
Franco Angeli - Milano
Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale
1a edizione 2011 (Cod.7.8) | pp. 264
Codice ISBN 13: 9788856836714

 ulteriori informazioni » 

a cura di: 
Umberto Rovelli 


 IM Book 
Da maggio 2011 è disponibile il volume antologico «Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net» in cui è stata inserita questa intervista
I.

II.
III.

IV.
V.

VI.
VII.

VIII.
IX.

X.
XI.

XII.
XIII.

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