CERCA IN IDEAMAGAZINE.NET

 

 DIALOGHI DI PROGETTO
 Mauro Cozzi a colloquio con Carlo Bimbi

Il testo riproduce quanto pubblicato sul catalogo Carlo Bimbi designer edito da Lungarno Editore – Firenze nel settembre 2006 in occasione della mostra Luoghi d'incontro inaugurata a Volterra il 9 settembre 2006 alle ore 17 presso il Palazzo Minucci Solaini (sede della Pinacoteca). Organizzata dall’associazione «Generazioni in Arte» e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Volterra, la mostra ha visto esposte opere dell’artista Marco Bagnoli, dell’architetto Vittorio Giorgini e del designer Carlo Bimbi. «Trait d'union» tra le tre personalità era ed è l’alabastro, materiale al quale la fama e la tradizione artigianale ed artistica di Volterra devono la propria notorietà nel mondo.


Mauro Cozzi: Cosa significa per te questo ritorno a Volterra? E più esattamente cosa significa a vent'anni di distanza dall'esperienza che insieme facemmo sulla progettualità e sulla storia dell'alabastro? Ricordo molte discussioni e un dibattito che folto di partecipanti e in più fasi, tra Firenze Volterra e Pomarance*, si articolò di molte idee, produsse cose, suscitò litigi. In fondo, a pensarci bene, nella storia discontinua di questo artigianato, e di questo materiale quasi inutile, talvolta impiegato in oggettini assurdi, si finì, come si dice, col dare un contributo. Anche se poi — ma capita spesso — non ci furono gli sviluppi che era lecito attendersi.
Carlo Bimbi: C'è sicuramente orgoglio nel presentare il mio lavoro nel luogo dove sono nato e dove, in parallelo con l'Istituto d'Arte, ho iniziato a cimentarmi con la pittura e la scultura frequentando lo studio di Mino Trafeli. Con l'artigianato, invece, ho pratica da sempre visto che nella mia famiglia si viveva d'alabastro. Sono cresciuto a scuola ma anche, d'estate, nella bottega di mio zio Emo, col racconto e i ritmi di una storia secolare che sembrava non dovesse finire mai…
Organizzare questa mostra mi fa riflettere, mi costringe a guardare indietro, cosa che faccio spesso, ma questa volta, direi, con maggiore determinazione. Con l'esperienza Cercare l'alabastro, ho modo infatti di rileggere il percorso fatto da allora e di apprezzare quanto c'era di positivo in quell'operazione. A partire dalla gestione del progetto davvero inteso come processo, dalla valorizzazione del lavoro di gruppo che metteva in evidenza le varie competenze dei partecipanti, creando un rapporto positivo tra gli operatori, sia pubblici che privati.
L'alabastro, in quel caso specifico, fu usato come una sorta di materiale didattico per mettere a punto i meccanismi del gruppo di lavoro. Del resto sono sempre più convinto che il valore principale di questo materiale non stia tanto in se stesso, quanto nella possibilità che ha rappresentato per gli artigiani di sviluppare abilità manuali e artistiche.
Per me Cercare l'alabastro è stata un'operazione davvero importante, che a vent'anni di distanza, meriterebbe una riflessione attenta. Tra gli aspetti positivi di quell'evento penso, ad esempio, alle tante iniziative che in seguito si sono attivate sullo stesso tema, promosse da operatori locali e non locali. E tutte sono state importanti, a cominciare dal fatto che hanno stimolato i giovani a cercare vie alternative, anche al di fuori della pietra di Volterra.

MC: Forse nell'alabastro tutto valore aggiunto d'arte e di memoria, fragile, ambiguo e certamente marginale, si trovano spunti adatti per parlare di design e perfino di produzione, in una terra come la Toscana (ma il discorso potrebbe adattarsi a tante altre zone d'Italia) dove il genio del luogo è assolutamente importante ma che per essere messo a frutto non può essere trattato alla stregua di un semplice souvenir.
CB: Da tempo, forse da sempre, questo materiale non ha un valore realmente competitivo sul piano merceologico, tanto è vero che oggi soccombe di fronte al continuo rinnovarsi dei materiali con caratteristiche da mercato globale. Per me l'alabastro è un materiale anacronistico, usato come surrogato del marmo, fragile e destinato a consumarsi, di fatto inutile. Chissà quando, a qualche ingegno bizzarro è venuto in mente di utilizzarlo in ambito artistico: e in quale altro sennò? È quasi un sesto senso quello che mi guida di continuo nei musei del mondo alla scoperta di oggetti in alabastro, onnipresenti nelle sezioni egizie come in quelle greco-romane, nel mondo medievale come in pieno rinascimento; sono d'alabastro le vetrate delle chiese romaniche, e penso a quella di San Miniato al Monte. Ma poi, una volta che la tecnica ha offerto nuovi e più convenienti materiali, il povero alabastro ha mostrato il lato debole: troppo poco pregiato per competere con il marmo, troppo poco durevole per competere con i nuovi materiali sintetici, troppo poco trasparente e duttile per competere con il vetro. Tuttavia, ripensandoci bene, amo l'alabastro quasi fosse la parabola dell'esistenza umana: fragile, dubbiosa, povera, debole. L'alabastro come Volterra, accomunati da un passato illustre che affiora con fatica dalle ombre di una sera infinita come l'uomo.
Volterra ha perso un'occasione importante quando non ha trovato l'accordo per la costituzione di un museo per e della storia dell'alabastro. Poteva essere quello un momento decisivo per la salvaguardia (per contrastare la dispersione che di fatto è poi avvenuta) di numerosi oggetti pregevoli sul piano artistico, documenti dell'abilità secolare dell'artigianato locale, e decisivo poi per l'economia di questo settore. C'è stata una posizione vetero-ideologica, per così dire, che per anni ha spacciato come modernismo, come attualità, il totale rifiuto del passato. Ora certi «muri» sono stati abbattuti, e così spero che la città sappia trovare la forza e la consapevolezza culturale per affrontare con serenità questo argomento. Anche centri modesti si sono dotati di un museo per attrarre il turismo culturale e per salvaguardare le proprie radici, ma a Volterra non esiste ancora uno spazio pubblico con caratteristiche filologiche, sostenuto da serie e adeguate iniziative, dedicato a questa attività. Eppure si conosce la città nel mondo per gli etruschi e l'alabastro! Ritengo che sia stata una mancanza ingiustificabile sul piano politico, economico e culturale disattendere questa aspettativa legittima di Volterra e della sua storia.

MC: Mi ricordo ancora, a vent'anni di distanza, la sorpresa provata via via che mi addentravo nella storia e nei documenti dell'Officina Inghirami. Enrico Fiumi aveva scritto qualche cosa; ma Fiumi è stato studioso autorevole ed incisivo in campi diversi dalle arti applicate. Il Manifeste stampato a Livorno nel 1792 da Marcello Inghirami, con l'elenco dei prodotti di quell'Officina di alabastri ispirati anche allo stile egizio, con l'esplicito richiamo a Piranesi, con l'offerta di modelli di scultura, di architettura e di dessert da centro tavola di soggetto architettonico, apriva un capitolo di respiro internazionale, per una cittadina che, seppure di storia illustre, non era allora servita nemmeno da una strada carrozzabile. L'Inghirami, insieme col suo omonimo zio Venuti (non a caso anche lui legato ad un altro luogo celebre dell'Etruria vetus come Cortona) e a qualche membro della famiglia Ginori, va collocato tra quella pattuglia davvero sparuta di nobili toscani che ebbero allora il coraggio d'intraprendere, al di là della terra, delle fattorie o di qualche fornace da orci o da vasi.
Fu un livello culturale alto quello dell'Inghirami, con l'idea di una distribuzione dei prodotti che dal porto di Livorno, ambiziosamente, dovevano inserirsi in tutti i mercati d'Italia e d'Europa. Ed anche la fine di quella breve avventura imprenditoriale fu gloriosa, segnata da eventi d'alto profilo, dall'invasione dei francesi di Napoleone. Ma non voglio farmi prendere la mano dal ricordo dell'Inghirami o del viaggiatore Giuseppe Viti che fu emiro in Nepal, o da altri periodi di questa industriosità che come quello gustosissimo d'epoca déco (con i prodotti di Ottorino Aloisio, di Bruno La Padula o di Umberto Borgna), meritano senz'altro d'essere ricordati.
Ricordandoli vorrei comunque sottolineare come i nostri sforzi di vent'anni fa avevano l'ambizione di ricucire una storia a tratti illustre; che per noi «venuti da fuori» – con te, ex indigeno, che ci avevi chiamati a raccolta – tentare quella ricostruzione, aveva il senso di un civilissimo omaggio al luogo, quasi una progettazione partecipata come si direbbe oggi, non un'usurpazione. Che ci fosse bisogno di un confronto di persone, di idee e che si dovessero mettere in campo forze nuove era evidente. O almeno ci sembrò di cogliere questo spirito nell'invito che allora ci rivolgesti. In fondo anche l'Inghirami, due secoli prima, s'era circondato di maestri che venivano da fuori, da più parti d'Italia e d'Europa.
CB: Volterra poteva e potrebbe ancora oggi diventare luogo di una progettualità che scommette nel proprio futuro, aprendosi all'esterno e tornando a confrontarsi con il mondo. Volterra antichissima e minuscola città, più piccola quasi di uno solo dei tanti grattacieli della nuova Asia, mi sembra un po' la parabola dell'Occidente in crisi di identità e di prospettive, impaurito dalla pressione di culture extraeuropee ma di fatto bisognoso di riallacciare con esse i rapporti. Io credo che la qualità del progetto stia nel saper cogliere i contributi più vari, provenienti anche da ambienti apparentemente estranei, ma capaci di dare nuovi e vitali contributi al cammino verso il futuro. Se tutto questo manca, non si può parlare più di progetto ma di tecnica che ripiega su se stessa, in un tecnicismo destinato a soccombere.

MC: Anche la tua storia, con gli studi a Firenze, all'ISIA che allora era quella di G. K. Koenig, di Spadolini ecc., e con il breve periodo passato nello studio Nizzoli a Milano, è una storia articolata di esperienze e di persone. A trent'anni e più di distanza possono essere ripensate, riviste alla luce del dibattito che è in corso sul secondo Novecento. Francesco Dal Co nella sua Storia dell'architettura italiana, per stare ad un dibattito latamente riferito al progetto, prende il 1966, anno della frana di Agrigento e delle alluvioni che martoriarono, in quel novembre, più zone d'Italia, come data d'avvio per raccontare quest'epoca. Nel '66 era finita davvero la ricostruzione, il boom economico e forse anche una certa idea della composizione e del progetto. Il 4 novembre del '66, in una piccola galleria di Pistoia, si apriva, guarda caso, una mostra di Super Architettura. Tu dov'eri?
CB: Oltre l'Istituto d'Arte e l'ISIA, hanno pesato sulla mia formazione vari studi professionali e artistici: lo studio di Trafeli a Volterra, poi a Firenze dal 1962, lo Studio di architettura Falciani che si trovava allora in quel bell'edificio progettato proprio da Renzo Falciani all'angolo tra Via Venezia e Via Cavour. Infine, sul finire del famoso 1968 e per tutto l'anno successivo, sono stato dentro lo Studio Nizzoli Associati di Milano, ricco ed effervescente di personalità come G. Mario Oliveri, Sandro Mendini e molti altri giovani tra i quali alcuni del futuro gruppo fiorentino 1999.
Da Trafeli a Volterra: avevo quattordici-quindici anni quando iniziai a frequentare lo studio del maestro. Facevo il ragazzo di bottega, preparavo i materiali, aiutavo Mino nell'esecuzione di alcune opere, ero sempre pronto ad ascoltarlo e a sottoporgli i miei primi esercizi artistici. Utilizzavo il disegno per dare immagine a fantastiche forme urbane che si trasformavano in forme umane: ricordo ad esempio la Fortezza medicea che, nei miei occhi di giovane artista, diveniva un robot meccanico antenato dei giapponesi ufo-robot.
Allo Studio Falciani finì la poesia. Passavo le giornate a sviluppare progetti di architettura fino al disegno esecutivo. Venivo dalla sezione scultura dell'Istituto d'Arte e per la prima volta mi trovavo di fronte al tecnigrafo. L'inizio fu faticoso, ma dopo un paio di mesi mi trovai pienamente a mio agio tanto da vedermi affidati lavori sempre più impegnativi. In quell'ambiente scoprii l'esistenza del Corso Superiore di Disegno Industriale a «Porta Romana», al quale mi iscrissi nel 1964. Cominciai lì a sentir parlare della Facoltà di Architettura e di tesi che avvertivano i primi rumori di un cambio di sensibilità e della futura contestazione: con grande perplessità del mondo professionale e dello Studio Falciani in particolare.
Nel 1966, nei giorni dell'alluvione, facevo parte del gruppo di lavoro che al Corso Superiore di Disegno Industriale (quel Corso che poi sarebbe divenuto l'ISIA), stava preparando la partecipazione all'Expo di Montreal del 1967. In quell'anno si concretizzava il progetto di un tavolo smontabile scaturito da una esercitazione per la cattedra di Progettazione diretta da Majoli, per PLANULA, e di una lampada, per GUZZINI; entrambi furono realizzati e inseriti in catalogo. Gli studi mi orientavano verso una progettazione finalizzata ad una committenza pubblica, com'era uso in quegli anni (telefoni a gettoni, piazzole di sosta sulle autostrade, auto elettriche urbane), una progettazione che mi teneva lontano da quelle utopie che stavano nascendo proprio in quel periodo anche a Firenze. Negli instabili umori dell'università di allora (e di sempre), si prefiguravano schieramenti diversi: Spadolini e Koenig che nelle loro diversità erano comunque colleghi all'ISIA; Savioli e Ricci che stavano maturando indubbi meriti nello stimolare e fiancheggiare i giovani più vivaci, alla ricerca di massima visibilità.
Allo Studio Nizzoli Associati mi occupo in prima persona della progettazione di oggetti per l'industria come ad esempio una mietitrebbia per Laverda, dei rubinetti per Zucchetti, lampade per Stilnovo. I miei lavori venivano poi sottoposti a discussione con i titolari dello Studio, Oliveri e Mendini in particolare. Il metodo di lavoro era adesso la continua discussione ed il continuo approfondimento delle complessità progettuali. L'incontro con l'ambiente milanese – un ambiente dove era costante il desiderio di sperimentare – fu assai positivo. Intorno ruotava tutto il mondo del design che si apriva ad un mercato internazionale, con continue presentazioni di prodotti nuovi. Altrettanto importante era il circuito delle mostre d'arte contemporanea, in special modo quelle allo Studio Marconi. Era il periodo dei concorsi di idee e proprio in uno di questi organizzato da ABET PRINT, presentai con Nilo Gioacchini Tuttuno. Mi stavo interessando ai problemi legati alla prefabbricazione degli interni e di come piani verticali ed orizzontali potevano articolarsi diversamente tra di loro originando spazi e funzioni. Tuttuno frutto di queste ricerche, fu un oggetto di successo, accolto sulle riviste specialistiche e addirittura esposto al MOMA di New York in occasione di un'importante mostra sul design italiano (1972). Recentemente nel gennaio 2006 è stato addirittura battuto all'asta da Sotheby's a New York!

Mi chiedi di tornare ai miei primi anni di lavoro. Conoscevo indirettamente i gruppi fiorentini, che erano di alcuni anni più grandi di me. Ne parlavo con Mendini e Oliveri, apprezzavo la loro voglia di cambiamento anche se, devo dire, ero maggiormente attratto dal lavoro di Joe Colombo, di Castiglioni e di De Pas - D'Urbino.
Il ritorno a Firenze e la nascita dello studio Internotredici… Certo che sul piano professionale tornare a Firenze da Milano, dove il design italiano è nato e in quel momento stava esplodendo, è stato come scendere da una Ferrari e salire su una Cinquecento. Professionalmente forse un errore, ma il desiderio era quello di inserirsi in un contesto, la Toscana, che mostrava nei primi anni '70 un'incoraggiante effervescenza creativa, una voglia di affermarsi ed emergere sia sul piano culturale che produttivo. I progetti del periodo Internotredici negli anni che vanno dal 1970 al 1975 lo documentano ampiamente. Certo è che con la crisi petrolifera del '74 e le prime difficoltà di mercato, furono messe in luce le carenze di un sistema che non era per niente pronto, con ricadute pesanti sulla libertà creativa e progettuale.

MC: In fondo il tuo rapporto relativo, come dici, col design radicale è determinato dall'iter diverso della tua formazione e da una concretezza professionale che da subito ha caratterizzato Internotredici. Se è vero che da sempre il design oscilla tra mestiere e utopia, in quel momento tu scegliesti il mestiere o non piuttosto contribuì l'ambizione di dar vita a qualcosa di intermedio, in una città come Firenze che in quel momento sembrava promettere cose interessanti?
CB: È vero: il mio percorso è stato molto diverso da quello dei gruppi radical. Come ti dicevo, fino dal 1968 sono entrato in diretto contatto con il mondo della produzione e, conseguentemente, del mercato. Il periodo Internotredici ha quindi rafforzata questa mia vocazione ad operare all'interno della produzione industriale che, per sua natura, ha nel mercato il suo referente unico e privilegiato. L'esercizio concettuale legato al progetto senza il filtro della realtà in cui si vive non mi ha mai interessato fino in fondo. Certo, anch'io sono spinto da un'istintiva attrazione verso la ricerca e l'innovazione. Senza questo aspetto, non sarebbero nati progetti come Tuttuno, Quadrone, Cercare l'Alabastro, ma anche Accademia, Triclinium o, ancora di recente, Glicine e Must, Blitz e New Deal. Più che di utopia, comunque, mi riconosco una forte componente artistica che condiziona e caratterizza il mio mestiere di designer. Quando progetto, tuttavia, ho anche in mente un risultato legato ad un obiettivo merceologico. In tanti anni di demonizzazione di questa parola, sento di avere una forte componente pragmatica e anti-ideologica, che mi ha portato ad intraprendere un percorso professionale documentato più dai cataloghi di vendita che dalle riviste patinate destinate agli studenti. Insomma, il fascino del progetto concettuale è stato sempre secondario rispetto a quella che per me è una vera e propria esigenza, ovvero affrontare la progettazione su un piano più squisitamente costruttivo, legato al tempo, alle caratteristiche e alle esigenze della società. Sono sempre stato più interessato a disegnare oggetti destinati a durare nelle case che a rincorrere le copertine delle riviste specializzate.

MC: Non essere più realista del re. Da quando ti conosco, ossia dall'inizio degli anni ottanta, ti ho sempre visto disponibile ad investire idee ed energie anche in ricerche non immediatamente finalizzate, a ridiscutere quel nodo a tutt'oggi centralissimo, che è il rapporto tra politica, ricerca, università e mondo produttivo e del quale è necessario parlare. Non sono un economista, ma mi pare, così ad occhio, che non siamo messi bene: l'economia italiana richiede innovazione, ma per fare innovazione ci vogliono risorse e noi non ne abbiamo disponibili. Per recuperare un ritardo trentennale bisognerebbe come minimo triplicare tali risorse. E bisognerebbe stringere un patto, una specie di riesumato Werkbund, tra ricerca e produzione, tra università, scuola e industria, superare sospetti annosi e una ruggine che non si catalizza da sé. Bisognerebbe cambiare mentalità e le mentalità, figuriamoci, non si cambiano certo facilmente né rapidamente. Ci si consola dicendo che l'innovazione di maggior successo in Italia è stata quasi sempre un' innovazione di carattere formale. Ma anche questa ormai non è più appannaggio naturale, talento istintivo del Paese dell'arte e degli artisti, va perseguita con la ricerca, con l'organizzazione, con l'accordo tra i vari soggetti attivi oltre che erogando i finanziamenti opportuni. Certo, quando ti capita – e a me è capitato – che artigiani e piccoli industriali coinvolti in progetti promossi dalla Regione, dall'Università ecc., reclamino compensi per aver realizzato prototipi di prodotti praticamente loro destinati, dando tangibile prova di non essere disposti ad investire, si capisce che è una questione di mentalità, di sfiducia annosa, e che cercare di ricucire questo rapporto è uno dei primi e più importanti progetti da preparare.
Su questi temi, come dicevo, ti ho sempre visto paziente e operoso, disposto a mediare, ad erodere certe chiusure corporative. Non so se qualcuno ti abbia riconosciuto questa attività dentro il mondo rustico e spigoloso dei distretti produttivi toscani, un'attività che talvolta si è posta in alternativa rispetto a quella di qualche celebre guru, di qualche designer della provvidenza, come scrivemmo nel catalogo Cercare l'alabastro.
CB: Ti ringrazio di queste parole che mi danno modo di comprendere come ancora una volta il lavoro sia il documento più chiaro e completo del proprio pensiero. È vero, mi riconosco anch'io la caratteristica di un carattere paziente e operoso, così come quella di credere nel valore del tempo che trascorre tra l'inizio e la fine di ogni progetto. In mezzo c'è spazio per la riflessione, gli scambi di idee, i ripensamenti, ed è da tutti questi fattori messi insieme che dipende la buona riuscita del progetto. Quanto ai miei rapporti con il mondo della produzione in Toscana, ritengo di aver ottenuto ottimi risultati. Non a caso i prodotti che ho scelto per questa mostra sono legati a quelle ditte con le quali ho costruito negli anni un rapporto collaborativo serio e importante, proprio in Toscana.

MC: Certo è cosa nota, almeno tra gli addetti ai lavori. Ma vorrei insistere sulla prima parte della mia domanda. Questi oggetti, quelli scelti insieme ai tanti altri che hai deciso di escludere, sono – immagino – il risultato non solo di un'idea e dello sforzo di immaginare una forma, ma anche di un'opera paziente di mediazione, di difesa, di discussione con la committenza e di adattamento rispetto alle tecnologie disponibili. Paul Valéry affermò che quando vedeva un'opera di architettura, non vedeva tanto la forma finita dell'edificio, ma piuttosto il cantiere, la cooperazione tra tutti coloro che partecipavano; pochi anni prima la cattedrale che Feiningher aveva inciso in xilografia, per illustrare l'opuscolo che conteneva il programma dei corsi della scuola fondata da Gropius, rappresentava anch'essa, come è noto, simbolicamente, la democratica collaborazione tra le varie arti.
Mutatis mutandis, dalla politica, alla capacità di suscitare progetti, a quella di trasferirli dalla ricerca alla produzione…è proprio il senso di tale democratica e condivisa partecipazione che sembra mancare tra noi. Ci si impantana quasi sempre nelle clientele politiche, nelle difficoltà burocratiche oppure nei veti incrociati di questo o di quello, nell'individualismo, in una gelosia tutta ancora artigianale che impedisce il successo altrui più che favorire il proprio. Luoghi comuni perché la perenne insoddisfazione e il biasimo pronto di questa terra sono arcinoti, ed è praticata l'interdizione assai più dell'organizzazione del giuoco.
Tra i lavori usciti da incarichi pubblici, stanti anche i processi che li hanno generati, quali ti sentiresti di commentare?
CB: Mi chiedi anche quali potrebbero essere le vie per riqualificare il mondo della progettazione e della produzione in Italia; se capisco bene, per promuovere una maggiore facilità d'incontro tra chi fa progetto e chi deve metterlo concretamente a frutto. È una questione che mi sta davvero a cuore. Mi viene subito in mente che qualcosa si è incrinato nel rapporto tra scuola e mondo della produzione a partire dagli anni '70. Se mi guardo intorno, mi colpisce vedere che molti dei designer oggi più operosi hanno una formazione che li lega al vecchio Istituto d'Arte, negli anni a cavallo tra il '60 ed il '70. Poi l'istruzione di massa ha portato tanti ragazzi sui banchi di scuola ma ha fatto venir meno l'acquisizione di una preparazione specifica, qualificata. Si è fatto sempre di più design nei convegni e nelle tavole rotonde che nei luoghi di produzione, mettendo in secondo piano la pratica quotidiana del mestiere.
Ancora una volta mi trovo a condividere le tue parole preoccupate sulla situazione che stiamo attraversando, anche se viviamo – bisogna ammetterlo – in una regione per molti aspetti ancora privilegiata.

Avanzo qui una proposta nella quale credo molto. Più che pensare al guru che viene dal nord e svuota i cassetti del proprio studio dei progetti inevasi, come ebbe a dirmi tanti anni fa un collega di Milano (e non mi riferisco certo allo stimato Angelo Mangiarotti, che nel 1984 abbiamo bonariamente definito designer della provvidenza), credo che si dovrebbe dar vita ad un laboratorio del progetto, ad un centro studi che possa essere luogo di incontro tra le esigenze della piccola impresa e il progetto, un luogo nel quale i giovani che escono più o meno spaesati dalle nostre università possano svolgere una vera e propria attività di specializzazione lavorando a progetti mirati. A fare da trait d'union tra i giovani e le imprese dovrebbero essere chiamati professionisti attivi sul mercato, scelti con titoli di merito finalmente derivati anche dai cataloghi della produzione e non solo dalle pubblicazioni scientifiche o sedicenti tali.
È anche vero che l'individualismo è fin troppo radicato ovunque e soprattutto nel nostro settore, insieme alle appartenenze, agli schieramenti, alle tifoserie. Mi chiedo anch'io quanto possa ancora durare tutto ciò, considerando che intorno a noi il potere attrattivo delle nostre scuole nei confronti di studenti stranieri va sempre più scemando. Prova di una certa decadenza, mi pare. Infine mi piace segnalare la nascita di una delegazione dell'ADI Toscana che è stata tenuta a battesimo proprio in questi giorni. La nostra è stata l'ultima regione ad aderire ad un progetto che, con la presidenza di Carlo Forcolini, da anni ha visto nascere esperienze locali di aggregazione e di associazionismo a livello regionale. Io mi sono impegnato in prima persona per questa impresa, convinto che essa rappresenti la via giusta per riallacciare i rapporti tra la vecchia guardia ed i giovani, e tra la scuola, le istituzioni e i professionisti.

MC: Questa mostra, nel pieno della tua maturità professionale, ha il significato di un bilancio, come dicevi, seppure evidentemente parziale del tuo lavoro. Ma forse nello spirito di cui sopra, interessa un altro aspetto: quello di fare il punto per capire se la rotta è stata giusta, se necessitano delle correzioni oppure se, compiuto il giro di esplorazione, non ci sia la voglia di tutto un altro mare o s'affermi invece il desiderio di esplorare meglio qualcuna delle isole solo intraviste all'orizzonte o visitate magari troppo rapidamente. Ci sono evidentemente rischi e premi nell'uno o nell'altro caso, ma in quale programma di viaggio ora ti riconosci di più? Anche il tuo incarico all'università, nel corso di laurea di Progettazione industriale, potrebbe cospirare verso l'uno o l'altro programma, potrebbe indurre pensieri e idee anche molto diversi.
CB: Quando si è più maturi, si affronta il progetto guardandolo con quel distacco che in gioventù ci è precluso. Si riesce così a distinguere con chiarezza le parti che lo costituiscono, come esse interagiscano fra di loro, si riesce sempre meglio a controllare le fasi del lavoro e a dare ad ognuna il giusto valore. Rimane comunque il fatto, per me prioritario, che alla fine di tutto l'iter progettuale esiste il prodotto. Esso deve essere la giusta sintesi, il punto di equilibrio tra chi investe e guadagna per produrlo e commercializzarlo, ed il consumatore finale. Negli ultimi anni, a fronte di una debole quantità di investimenti sul prodotto, si è passati ad una forte e massiccia avanzata della pubblicità. Mi riferisco in particolare ai beni di largo consumo, facendo sì che il loro valore monetario sia gravato sempre più da oneri promozionali e sempre meno dal loro valore effettivo. Detto questo, e riprendendo la tua domanda, il mio percorso futuro ha l'obbiettivo di continuare ad operare in una dimensione della progettazione che dia certamente il giusto peso al marketing e allo sfavillante mondo della pubblicità, insostituibili mezzi di promozione dell'oggetto ma in uno spazio che deve tornare ad essere ben definito e non prioritario. Forse questo atteggiamento potrà nel futuro rappresentare solo una nicchia, se si considera l'articolazione del consumo o del consumatore a geometria variabile quale si va prefigurando. D'altra parte in un progetto occorre coerenza, e questa la si ottiene facendo delle scelte. La mia non è quella del guru, figura alla quale non credo e per la quale non sono affatto portato, ma quella di mettere in gioco, anche insieme con altri, le mie qualità e competenze.
Quanto alla mia attività di professore a contratto presso il Corso di Laurea di Disegno Industriale di Firenze, posso dire che mi piace portare il contributo della mia professionalità in un ambiente nuovo e in via di definizione, dove la tentazione di isolarsi dai contesti produttivi e immergersi in progetti estemporanei a me sembra molto forte. Vorrei trasferire agli studenti il senso dell'impegno e della pratica, far capire loro che questa professione richiede non meno di altre una forte dedizione e che, sotto la superficie degli oggetti, c'è sempre una struttura che li sostiene. Insomma, vorrei che si tornasse a parlare di design come di una disciplina artistica legata alla produzione di beni d'uso. Una disciplina che nasce lontano nel tempo e che si è sempre misurata con le tecnologie, la moda e il gusto dell'epoca: ieri con il tornio e i vasi di terracotta o con i metalli e i più svariati utensili; poi con l'industria delle ciminiere fumanti; oggi con l'informatica e la globalizzazione; domani, chissà…

* Nel 1984, su iniziativa della Comunità Montana della Val di Cecina e del suo presidente Maurizio Maggi, del Comune di Volterra, della Provincia di Pisa e della Regione Toscana, e con il coordinamento di Carlo Bimbi, fu avviata un'iniziativa di studio e di progetto sull'alabastro. Gli oggetti realizzati da Studio Arcanto, Carlo Bimbi, Cecilia Bonisoli, Isanna Generali, Nilo Gioacchini, furono esposti in una mostra allestita in Palazzo Solaini a Volterra (19 maggio - 25 giugno 1984). A questa seguì un'analoga manifestazione che col precedente gruppo di lavoro, vide la partecipazione dello scultore Mino Trafeli e di studenti dell'ISIA e dell'Accademia di Belle Arti di Firenze (Palazzo dei Priori, agosto settembre 1986). Contemporaneamente veniva conclusa una prima fase del lavoro di ricerca sulla storia dell'alabastro, ricerca che si concretizzava nel volume Alabastro. Volterra dal Settecento all'Art déco ( Cantini editore, Firenze 1986) curato da Mauro Cozzi. A queste attività hanno poi fatto seguito altre mostre e pubblicazioni sulla storia e sulla contemporaneità della pietra di Volterra. Tra queste ultime il volume di Ilario Luperini, Volterra Alabastro oggi, Pacini, Pisa, 1990.

Mauro Cozzi. Nato nel 1948, architetto, dal 1981 tiene i corsi di Storia del design all’ISIA. Professore associato di Storia dell'architettura, insegna attualmente alla facoltà di Ingegneria di Firenze. Si è interessato dell'architettura del Cinquecento (una monografia su Antonio da Sangallo il Vecchio) e soprattutto dell'Ottocento e del Novecento, pubblicando numerosi lavori: con R. Bossaglia ha preparato un libro su I Coppedè (1982); da solo o con altri studiosi si è occupato delle vicende ottocentesche del duomo di Firenze (1987) e dell'edilizia in Toscana dal XVII al XX secolo. Nel settore delle arti applicate e decorative ha dedicato monografie alla storia dell'alabastro di Volterra e all'industria artistica del medio Ottocento (1996). Ha inoltre collaborato al Dizionario Biografico degli Italiani e, sotto la direzione di F. Braudel, a Prato, storia di una città. Ha prodotto studi sull'architettura dell'industria, sull’attività di ingegneri e impresari del primo Novecento e sul rapporto tra architettura e fotografia. Nel 2001 con E. Godoli, ha curato gli atti del convegno su Angiolo Mazzoni e il convegno sull'architettura ferroviaria dell'Ottocento. Recentemente si è interessato dei Palazzi delle poste italiane nel periodo fra le due guerre e dell'architettura delle sale cinematografiche.


Carlo Bimbi. Nato a Volterra nel 1944. Quarant’anni d’intelligenza creativa impegnata nella ricerca di soluzioni progettuali logiche e razionali, fanno di questo autore una figura centrale del design italiano. Nel 1972 – come membro dello studio Internotredici – è con Tuttuno tra i protagonisti di Italy: The New Domestic Landscape al MoMA di New York, realizzando successivamente progetti per Ariete, Guzzini, Bardi, Ciatti, Ferlea, B&B e l’emergente Segis – la cui sedia Enrico vince il Roscoe-Awards 1983. In seguito il dialogo con l’imprenditoria toscana si fa intenso ma non esclusivo, collabora quindi sia con realtà imprenditoriali nazionali – Bontempi, Annibale Colombo, Metalmobil, Polaris – sia con prestigiose aziende «locali» – quali Arketipo, Bosal, Casprini, Dema, La Falegnami, Falegnameria 1946, Le Porcellane (di cui è attualmente art-director), Novo e Segis, la cui Blitz si aggiudica nel ’98 i premi Red Dot e iF Award. (carlobimbidesign.it | www.carlobimbi.eu)



 

I.

II.
III.

IV.
V.

VI.
VII.

VIII.
IX.

X.
XI.

XII.
XIII.

XIV.
XV.

XVI.
XVII.

XVIII.
XIX.

XX.
XXI.

XXII.
XXIII.

XXIV.
XXV.

XXVI.
XXVII.

XXVIII.
XIX.

XXX.
XXXI.

XXXII.
XXXIII.

XXXIV.
XXXV.

 




TOP