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 L'AMOROSA INVENZIONE DEL QUOTIDIANO
 Intervista a Paolo Ulian


Il design che prima non c'era, questa potrebbe essere la postilla per le piccole invenzioni che Paolo Ulian ci ha regalato nei suoi quindici anni di attività. Profondo, impegnato, semplice e cogente come il design del primo dopoguerra, il lavoro di Ulian è innanzitutto una meditazione sul ruolo della professione designer, da intendersi come indagatore sociale, ecologista, antropologo, ma, soprattutto, come creatore di senso. In ogni suo progetto – dal paravento Onda, alle ciabattine Print, dal doppio coltello Pane e Salame, al tavolo-panca Cabriolet – si coglie l'emergere di uno spazio di progetto inusitato. Di lui, sovente invischiato nell'ibridazione in cui spesso si cela il nuovo, sta lentamente accorgendosi anche il grande pubblico, l'imprenditoria più attenta – Opposite, Sensi&C., Zani&Zani, FontanaArte, Luminara, Driade, Henraux, Ceccotti International – e, più di recente, l'editoria con il volume SaleFino in cui si trova un compendio testuale e figurativo della sua capacità di "inseguire con dedizione da missionario l'utopia della qualità poetica per tutti".

Innanzitutto mi piacerebbe affrontare la questione del rapporto intergenerazionale. Ti formi ed esci dall'ISIA di Firenze nel 1990. Il tuo lavoro di tesi – il famoso paravento in cartone ondulato Onda tanto poetico quanto intelligente – viene pubblicato nel '92 da Domus. Vieni definito un pioniere del riciclaggio creativo, ma, sebbene tu non abbia mai autoprodotto tuoi lavori, vorrei sapere quanto delle speranze riposte nei tuoi prototipi proveniva dalle fortune narrate o reali di figure come Ron Arad o Ingo Maurer? E comunque, più in generale, a chi ti senti di dovere qualcosa?
Sicuramente Ron Arad ha avuto un ruolo importante nella mia formazione, è stato un esempio illuminante di come un approccio progettuale apparentemente votato solo alla ricerca possa approdare con naturalezza e con successo anche alla produzione industriale (la libreria a nastro Bookworm per Kartell è paradigmatica). Anche Ingo Maurer è stato un esempio importante, uno che si è inventato un'azienda su misura per editare le proprie personalissime creazioni.
Tuttavia, uscito dall'ISIA di Firenze, nei primi anni novanta l'influenza esercitata dai grandi del design Italiano era ancora molto forte. Ero e sono ancora un grande ammiratore di Achille Castiglioni, che ritengo il più coraggioso e innovatore designer del panorama italiano. C'era Vico Magistretti con i suoi capolavori di invenzione, purezza e semplicità, e poi Bruno Munari e Enzo Mari dal quale, forse, ho ricevuto l'imprinting più forte, certamente dovuto al fatto di averlo avuto prima come docente e poi per essere stato assistente nel suo studio.

Come tu stesso affermi nelle cose che realizzi hai sempre cercato una piccola invenzione. Che ne pensa uno che non riesce a "progettare un prodotto che sia solo elegante formalmente" dell'attuale sopravvalutazione, soprattutto italiana, del mondo dell'arredo – in cui, tra l'altro, non c'è quasi più innovazione concreta in quanto il settore appare come ancorato ai vezzi e ai tempi del fashion – da parte di riviste e sistema dei premi di design?
Credo che per fare questo mestiere sia necessario seguire il proprio istinto cercando con sudore e fatica di incontrare lungo la propria strada le realtà produttive che più gli assomiglino.
Personalmente, mi sento più vicino alla figura dell'inventore che a quella dello stilista e questo mi porta spesso a scontrarmi con la realtà che hai descritto. Molte aziende italiane – le stesse che hanno conosciuto il prestigio grazie a coraggiosi imprenditori negli anni cinquanta e sessanta –, oggi sono alla ricerca spasmodica del prodotto che si venda bene, con pochi rischi e magari accompagnato da un bel nome di designer straniero. Poco importa se poi questo prodotto, spesso, non abbia nulla di realmente nuovo da dire. Il comunicare innovazione non è più strategico per il mercato; è diventato molto più importante allinearsi alle mode correnti, alle tendenze in atto derivate da fenomeni culturali di livello globale.
In questo momento, se un designer italiano vuole lavorare con buoni profitti economici, deve necessariamente sottostare a questa situazione, deve progettare oggetti che, spesso, derivano da attentissime ricerche di marketing e solo in minima parte da una propria ricerca personale.
Trovo che i designers italiani che resistono e che riescono a sopravvivere a questo stato di cose (e ce ne sono molti e molto bravi) potrebbero essere definiti quasi degli eroi.
A proposito di eroi, vorrei spendere due parole su Giulio Iacchetti e Matteo Ragni che quest'anno, dopo due anni di lavoro e con grande caparbietà, sono riusciti a mettere in piedi Design alla Coop, un'operazione che coinvolge un'importante azienda della grande distribuzione come Coop e una quindicina di designers italiani. Un vero e coraggioso tentativo, tutto italiano, di confrontarsi con l'obiettivo primario del design industriale: progettare per la gente comune, cercare di migliorare la qualità della vita (anche emotivamente) della maggioranza delle persone, non, come succede spesso, solo quella di una ristretta cerchia di privilegiati. Per l'operazione Coop ho progettato un Guanto togli-pelucchi realizzato totalmente con tessuto in microfibra (invece che tessuto in microfibra + manico in plastica come nelle spazzole in vendita al supermarket). Un comune oggetto del quotidiano, concettualmente e formalmente rivisitato in modo da migliorarne le prestazioni eliminando al tempo stesso inutili parti in plastica.

In ormai 15 anni di attività ti sei trovato a contatto con realtà produttive diverse. Potresti raccontare come hai vissuto la trasformazione dai prototipi al prodotto con Opposite, Sensi&C., Zani&Zani, FontaArte? In ognuna di queste realtà che ruolo svolge – quando c'è – l'ufficio tecnico aziendale? Che esperienze hai avuto ed hai tutt'ora della realtà imprenditoriale toscana?
La maggior parte dei miei progetti che hanno poi trovato una collocazione in qualche catalogo sono nati con l'esigenza di partecipare a delle mostre. Esporre i propri oggetti in mostre collettive era l'unica, significativa opportunità che avevo nei primi anni novanta di far conoscere il mio lavoro. In quel periodo non esistevano strutture di promozione per giovani designers come oggi avviene con il Salone Satellite. C'era però la passione di Alberto Zanone che con lo spazio Opos a Milano offriva, e ancora oggi offre, la possibilità di esporre il lavoro di giovani designers attenti alla ricerca. Allo spazio Opos ho esordito con i miei primi progetti, e lì ho avuto i primi contatti con le aziende: la lampada H20 e l'appendiabiti Dune, due prodotti realizzati sfruttando le bottiglie in plastica dell'acqua sono entrati in produzione nel 1998 per Opposite, forse la prima azienda ad occuparsi di oggetti realizzati con parti riciclate.
Bartolo, la lampada da tavolo realizzata con un barattolo di conserva, fu presentata alla Galleria Ammiraglio Acton di Milano e subito dopo anch'essa entrò in catalogo per Opposite.
Stessa cosa per le ciabattine Print, prima presentate alla mostra Scrivilo col design a Milano e successivamente prodotte da Sensi&C. di Assisi.
Nel 1999 ho iniziato a collaborare con Zani&Zani, una collaborazione che dura ancora oggi. Anche in questo caso, tutto è nato grazie ad una mostra in cui esponevo un coltello a doppia lama che chiamai Pane e Salame. Il progetto ebbe un parto piuttosto difficile, ma fu fondamentale per iniziare un dialogo più ampio con l'azienda.
La Zani&Zani è una realtà produttiva dove la quasi totalità dei prodotti viene realizzata direttamente nella propria sede. Non c'è un ufficio tecnico interno, tutto viene deciso discutendo direttamente con le maestranze in officina.
L'incontro con FontanaArte ci fu nel 2000 durante il Salone Satellite. Davanti allo stand passarono Carlo Guglielmi e Rodolfo Dordoni che sembravano interessati ad un paio di miei progetti. L'anno successivo il tavolo Cabriolet è entrato in catalogo, un paio di anni dopo anche l'appendiabiti Bowl.
In questo caso l'ufficio tecnico dell'azienda è stato fondamentale per la messa a punto dei prodotti facilitando molto il mio compito.
Tra le aziende toscane ho avuto interessanti esperienze con Henraux di Querceta, una grande azienda lapidea con la quale, alcuni anni fa, abbiamo sperimentato nuove possibilità di utilizzo delle tecnologie per il taglio a getto d'acqua. Questo tipo di lavorazioni, utilizzate per realizzare moduli a intarsio per pavimentazioni, producevano, fino ad allora, sempre un pezzo positivo e uno negativo. Quest'ultimo era sempre destinato alla discarica. Il mio progetto, che ancora ricordo con orgoglio, consisteva in una serie di decori a intarsio in cui era previsto l'utilizzo di entrambi i pezzi ricavati dal taglio, in modo da dimezzarne il costo e da evitare qualsiasi tipo di spreco.
Ricordo poi con piacere, la collaborazione con Ceccotti International di Cascina, in cui tentammo di realizzare una piccola collezione di oggetti e complementi sfruttando esclusivamente gli scarti scultorei in legno di ciliegio derivati dalla lavorazione a controllo numerico delle sedie e dei mobili che l'azienda aveva in catalogo. Ero affascinato dall'idea di poter realizzare un catalogo di oggetti "al contrario", che testimoniasse un nuovo possibile approccio progettuale. Nel 2001 ho progettato per Luminara un paio di lampade di cui una, Fluxus, ha ricevuto la menzione speciale al The Bombay Shapphire Prize 2004.

Della relazione tra strategia e design: note critiche1 è il titolo di un interessante saggio di Francesco Zurlo in cui, analizzando le convergenze concettuali tra pensiero creativo e pensiero strategico, l'autore segnala come i designer oltre ad essere "portatori di capacità interpretativa" dei dati della società e del mercato sono – e forse più propriamente –, creatori e/o "costruttori di senso". Ed è in questi termini che mi sembra si debba parlare del tuo lavoro di questi anni. Alcuni esempi – piccoli se vuoi ma abbastanza pertinenti – sono le tue Print e il più recente Finger biscuit: progetti che convincono man mano che se ne riesce a ipotizzare l'utilizzo.
Ma quello che mi interessa sottolineare è l'aspetto rischioso del tuo metodo di lavoro, in cui – credo – l'introversione giochi un ruolo importante. Ponendosi, per così dire, sulla soglia tra senso e non senso il designer costruttore di senso si espone, al rischio/opportunità della depressione, della melanconia alchemica – ad un tempo sorgiva e distruttiva – che, a dispetto della felicità e dell'apparente levità dei risultati, dovrebbe avere un ruolo importante nel processo creativo di (nuovo) senso. E così?

Credo che qualsiasi mestiere creativo richieda alti costi in termini di sofferenza, sopratutto mentale. Immaginare nuove visioni della realtà che ci circonda significa allontanarsi dalle certezze acquisite sino a quel momento, è un po' come affrontare un viaggio nello spazio senza nessuna certezza di incontrare sulla propria strada un pianeta adatto su cui approdare.
E' l'ansia causata dall'incertezza di trovare un pianeta il più vicino possibile alla perfezione della terra, che inevitabilmente porta a stati depressivi coloro che sono alla ricerca dell'insondabile.
Tuttavia penso che sia solo una questione di abitudine a questa condizione.
Il grande architetto Jože Plecnik diceva: "Non curatevi di soffrire, é un buon segno, come il vino nuovo che fermenta. Con ogni probabilità la sofferenza é la cosa più bella, più vera e più preziosa del mondo".

Sebbene nel tuo approccio al progetto ci sia molto ragionamento non classificherei mai il tuo come design concettuale. I tuoi lavori recano i segni dell'arguzia, del witz freudiano, ma anche della più pratica e complessa mètis greca. Vi si percepisce l'insistere di uno sguardo amoroso al quotidiano. Un design che parla alle nostre menti ma si comunica – aldilà della forma, e insieme ad essa –, attraverso l'enucleazione di una trama. Non di rado i tuoi progetti partecipano al gioco della fabula e rappresentano impensate formazioni e concrezioni di soggetti poetici della domesticità. Difficile perciò – soprattutto per una stampa abituata al primato della visione – proporre al pubblico la tua attività. I tuoi oggetti non eccedono gli standard, non cercano l'applauso, ma sono misurati e diventano comprensibili appieno in una dimensione intima e colloquiale: quella del racconto appunto. L'epoca comunicativa attuale ha però fortissime remore nei confronti della parola e le poche righe di una didascalia che potrebbero aiutare a comprendere un progetto rischiano di essere già troppa mediazione tra prodotto e mercato finale (è una difficoltà che, tra l'altro, mi sembra coinvolgere anche designer meno giovani come Denis Santachiara…)
Mi piace quello che dici sul mio approccio progettuale, lo sento molto vicino al mio modo di operare, che sicuramente, non è solo concettuale. E' piuttosto un tentativo di raggiungere il miglior compromesso possibile tra la comunicazione di un concetto e la sua rappresentazione in termini fisici.
Quello che mi interessa è inseguire questa sintesi.
Non saprei stabilire se il riconoscimento da parte dei media del settore sia stato generoso o meno nei confronti del mio lavoro, mi piace pensare che quello che ho raccolto in questi anni sia esattamente ciò che mi merito. Poi, sinceramente, penso che avere troppa attenzione da parte dei media non sia così facile da sostenere. Quando sei al centro dell'attenzione, diventa molto difficile mantenere il giusto equilibrio, avere il tempo e la tranquillità necessari per svolgere bene il proprio lavoro. Non è nelle mie ambizioni trasformare il mio piccolo studio in una sorta di azienda obbligata a macinare progetti a ritmi incalzanti. Mi piace lavorare con lentezza, approfondire gli argomenti, riflettere, avere anche un pò di tempo da dedicare a me stesso e ad altre mie passioni come le passeggiate in montagna o al mare.
In fondo, credo che la qualità della vita si traduca inevitabilmente nella qualità del proprio lavoro. A proposito di Denis Santachiara, Il paragone forse non é adeguato. Santachiara é il grande mago del circo del design, io mi sento solo un umile giocoliere.

Poco fa segnalavi quanto siano state importanti le mostre per la tua attività futura. RRRR nel 1995, (clan)destino nel 2001, ACQUA/WATER nel 2003, NEW AGRIculture nel 2004 sono state tutte realizzate a Milano nello spazio espositivo Opos fondato nel 1990 da Alberto Zanone. Come è nato il vostro rapporto e come è proseguito negli anni?
Come accennavo prima, lo spazio Opos fu una sorta di isola felice per i giovani designers. Nei primi anni novanta – quando ancora non esisteva Opos – , mi ricordo l'entusiasmo che provavo nel mettere a punto i miei primi progetti, costruire i primi prototipi.
Ma ricordo anche la rabbia che provavo per l'impossibilità di esporre le mie piccole creature in qualche spazio a Milano. La mia era una famiglia molto modesta e non potevo certo permettermi di spendere le cifre richieste dalle gallerie.
Poi nel '93 ci fu la prima edizione di "design under 35" indetto da Opos. Lo spazio espositivo era bellissimo, circa cinquecento metri quadrati destinati totalmente alla ricerca dei giovani designers. Non si pagava nulla per partecipare, l'importante era sviluppare dei buoni concetti e avere la fortuna di essere selezionati.
Visitai quella prima edizione di Opos e ne rimasi fortemente colpito. Mi riconoscevo pienamente nel tema della mostra e nella coerenza etica dei progetti presentati.
L'anno successivo inviai qualche progetto e fui selezionato. Da allora ho partecipato a quasi tutte le altre edizioni, che, come hai ricordato, hanno sempre affrontato tematiche legate all'attualità o che indagavano con un certo anticipo le problematiche sociali del prossimo futuro. Difficilmente, durante la settimana del design a Milano capitava di imbattersi in esperienze così intense, con quella forza comunicativa, con quella voglia di cambiare le regole del gioco, senza gesti plateali, ma attraverso l'intelligenza di piccole o grandi idee.
Ad Alberto Zanone voglio molto bene e spero di non essere retorico nel dire che buona parte del merito di aver cresciuto la mia generazione è sicuramente suo.

Dopo il Salone di Milano in questi giorni anche ad Abitare il Tempo viene presentato, SaleFino, un libro in cui sono raccolti, oltre ai tuoi, i lavori di Lorenzo Damiani e di due giovani team come JoeVelluto e Aroundesign. Come ti trovi in questa compagnia? Siete un agglomerato, un gruppo in nuce, oppure sono solo i segni distintivi di una generazione a giustificare questo accomunamento? Pensando ad acuni progetti di Lorenzo Damiani – Flex per Montina, il biscotto Cadeau proposto durante la mostra Pappilan, Tavolante o Packlight – sembra di avvertire qualcosa del tuo temperamento, la medesima scarsa propensione a lasciare il territorio, le matrici culturali…
SaleFino è un bel libro edito da Abitare Segesta ideato, interpretato e realizzato dai JoeVelluto, un gruppo emergente di giovani designers vicentini. La caratteristica principale del libro è l'interdisciplinarietà. Vengono cioè presentati i prodotti e progetti di quattro realtà del design italiano interpretati dagli scatti fotografici di un bravo fotografo, Matteo Sandi, che a sua volta sono interpretati da elaborazioni grafiche fatte dagli stessi Joe Velluto.
Il risultato è un libro molto speciale, fuori dai canoni cui siamo stati abituati dalle numerose e omologate pubblicazioni di settore.
Il perchè di questo quartetto è dovuto fondamentalmente alle nostre affinità nel modo di operare e nella simpatia reciproca. Non lavoriamo assieme, ognuno ha un proprio studio e una propria autonomia. Lorenzo Damiani lo considero ormai una sorta di alter ego, ci conosciamo da diversi anni e abbiamo molto in comune. I JoeVelluto li ho conosciuti tre o quattro anni fa, e da subito ho amato la loro vena dissacrante e ironica. Gli Aroundesign alias Giulio Iacchetti e Matteo Ragni, anche se ci siamo conosciuti personalmente solo da un paio di anni, é come se li conoscessi da sempre. Seguo da anni il loro lavoro con interesse ed essere in un libro insieme a loro mi rende molto felice.

Se ti faccio qualche nome, oltre ovviamente ai protagonisti di SaleFino, puoi indicarmi qualche compagno di strada: Walter Becchelli, Fabio Bortolani, Francesco Argenti, Franco Cervi, Paolo Olivari, Lorenzo Gecchelin, Tiziano Bono, Marco Romanelli, Mark Krusin, Donata Paruccini, Inga Sempé, Enrico Azzimonti, Nucleo, Jordi Pigem, Alessandro Loschiavo, Makoto Kawamoto, Gumdesign, Diego Grandi, Gabriele Pezzini, Eugenio Coppo, Studio Ot, Deep Design, Droog Design...
Sì, quasi tutti quelli che hai citato sono dei compagni di strada da qualche anno. La maggior parte di loro conosciuta nello spazio Opos, come Fabio Bortolani, Enrico Azzimonti, Francesco Argenti, Walter Becchelli e Lorenzo Damiani coi quali continua una sincera amicizia. Con Gabriele Pezzini e Donata Paruccini ci conosciamo dai tempi dell'ISIA, ci siamo diplomati nello stesso anno e ancora oggi, anche se a intervalli di tempo a volte lunghi, ci si incontra sempre molto volentieri. Con Marco Romanelli ci siamo conosciuti nei primi anni novanta, quando io lavoravo come assistente nello studio di Enzo Mari e lui era redattore di Domus. Praticamente posso dire di essere cresciuto anche grazie alla lettura dei suoi preziosi articoli prima su Domus e poi su Abitare. Probabilmente é stato lui il mio migliore compagno di strada, ha sempre creduto nel mio lavoro e mi ha sempre sostenuto con il suo inguaribile ottimismo anche in momenti non proprio felici.
Nel 2000 con Lorenzo Damiani e Tiziano Bono partecipai al Salone Satellite, dove conobbi il gruppo torinese dei Nucleo, Alessandro Loschiavo, Makoto Kawamoto, Diego Grandi e il gruppo viareggino dei Gumdesign. Quell'edizione del Salone Satellite fu molto fortunata per me, perchè mi capitò di vincere il primo premio al 1° Design Report Award e di avere la copertina del Magazine tedesco Design Report. Qualche mese più tardi il fondatore di Droog Design, Gijs Bakker mi chiamò al telefono dicendo che voleva incontrarmi perchè gli erano piaciuti i miei lavori pubblicati su quella rivista. Il fatto di avere la possibilità di lavorare con i Droog Design mi riempì di entusiasmo perchè adoravo i loro progetti e la loro filosofia fin dagli esordi.
L'anno dopo un mio progetto – Mat-Walk, un tappetino da bagno con ciabattine integrate –, fu incluso nella mostra Hotel Droog a Milano. Ero il primo designer italiano ad avere un progetto nella loro collezione e questo mi rendeva particolarmente eccitato!

Nell'elenco precedente ci sono quasi esclusivamente giovani designer italiani che, con tutta probabilità, attualmente non stanno collaborando con aziende italiane di prestigio. Nell'età d'oro del Made in Italy, azienda e designer spesso andavano di pari passo nell'evoluzione e nella ricerca linguistica e tecnologica. E si trattava di una realtà diffusa sul territorio; anche per imitazione, l'idea vincente di innovare formalmente il linguaggio – traghettando nel prodotto contemporaneo anche i valori più propri della tradizione artigianale – è stata una via italiana, locale che si è imposta globalmente. Oggi si assiste ad una lenta progressiva mutazione identitaria della produzione nazionale che si nutre in primo luogo della profonda e, ormai dilagante, esterofilia imprenditoriale nella scelta dei collaboratori – spesso tra l'altro accolti più per notorietà che per capacità specifiche. Si torna ovviamente al velenoso connubio tra design e moda – non a caso una delle condizioni specificate come essenziali per Enzo Mari, in un appello uscito su Domus poco più di un anno fa, per decidere se collaborare o meno con le aziende…
Sì, è vero, i designer italiani, specie se giovani, non trovano molto seguito in Italia. Hanno grandi difficoltà nel trovare un interlocutore che ne capisca le potenzialità, che segua e sostenga la loro personale ricerca. Soprattutto hanno molta difficoltà nel trovare un interlocutore con un occhio attento anche alla loro dignità. In Italia sono ancora poche, forse pochissime, le situazioni in cui il giovane designer che viene coinvolto in una collaborazione con un azienda, trova il giusto rispetto del suo lavoro anche con un adeguato trattamento economico. Molte aziende italiane si affidano a designers stranieri pagandoli dignitosamente. Le stesse aziende, quando hanno a che fare con i giovani designers italiani, sembra che si sentano affrancate sul lato economico, e questo, sinceramente, non lo capisco.

Altro tema importante su cui vorrei sentire la tua opinione è la tutela dei diritti d'autore; una problematica in cui non sempre gli "autori" delle copie sono da rinvenire in aziende e designer concorrenti. Anche nella stessa azienda con la quale si realizza un prodotto non sono infrequenti passaggi indebiti di proprietà intellettuale…
Quest'anno, visitando Euroluce a Milano, mi sono trovato di fronte a uno stand in cui erano esposte con grande risalto delle lampade praticamente uguali a Bartolo, la lampada fatta con il barattolo della conserva che avevo disegnato nel 1998 per Opposite che poi ha ceduto i diritti a Indarte. Questa è già la seconda volta che mi imbatto in una copia di Bartolo. La cosa più buffa è che gli autori di queste copie – tra l'altro sono riusciti anche a copiarle male! – hanno avuto la spudoratezza di firmare il progetto col loro nome e, in un caso, anche di chiamare la lampada Barattolo.
Casi simili, comunque se ne vedono quotidianamente, Euroluce di quest'anno poi, pullulava particolarmente di copie in tutte le salse.
Fino a qualche anno fa ero convinto che i progetti si potessero proteggere con il deposito del brevetto – che, per avere un minimo di garanzia, dovrebbe essere internazionale con i relativi costi molto elevati –, ma poi, per esperienze dirette e sentite le testimonianze, di alcuni miei colleghi e amici, di loro esperienze paradossali, ho capito che non c'è molta speranza contro questa vergognosa consuetudine.
Penso che la sola consolazione per un designer sia di pensare, come diceva Bruno Munari, che "se qualcuno ti copia vuol dire hai fatto qualcosa di buono".

Il design da sempre è un'ipotesi che intende farsi materia. Ciò significa che è un'arte concreta in cui gioca un ruolo fondamentale la frequentazione, l'esperienza, la competenza circa l'ambito del fattibile con determinati materiali: progettare, dunque, a partire da un limite fisico. Più recentemente però, con l'emergere e il proliferare di nuovi materiali, design può non significare più ideare forme ed usi compatibili con un limite, quanto piuttosto determinare il limite – ovvero il materiale – che più si avvicina ad un concetto. Che tipo di esperienza hai avuto, ad esempio, nell'utilizzo del Coverflex con Cabriolet per FontanaArte? Come si caratterizza l'approccio progettuale ai nuovi materiali rispetto a quello, diciamo, ingegneristico che ne saggia ed evidenzia le caratteristiche qualitative salienti?
Ero alla ricerca di un materiale molto flessibile e strutturale al tempo stesso per realizzare un' idea che avevo in mente da tempo: un tavolino da fumo con il piano flessibile in modo da poterlo utilizzare anche come panchetta con schienale.
Ne parlai al telefono con Lorenzo Damiani che stava già lavorando sul Coverflex e fu lui a consigliarmelo.
Alcuni giorni dopo andai a visitare la fabbrica in Brianza dove ebbi la conferma che quello era il materiale giusto per il mio caso. Il Coverflex era stato brevettato solo da alcuni mesi e fino a quel momento era stato utilizzato solo come materiale per realizzare superfici curvilinee negli arredi per uffici e nei locali pubblici. Lorenzo ed io eravamo i primi a sperimentarne altre possibili applicazioni. Quando ritornai al mio studio avevo con me alcuni pannelli di Coverflex di spessore diverso e, nel garage sotto casa, cominciai subito a realizzare i primi rudimentali prototipi per sottoporlo ad ogni tipo di sollecitazione. In pochi giorni il tavolino era pronto per essere esposto al Salone Satellite.
A proposito del diverso approccio al progetto tra designer e ingegnere, non vorrei alimentare il perenne conflitto tra le due categorie, anche perchè spesso si vedono dei pessimi progetti fatti da designer ed ottimi progetti fatti da ingegneri. Credo piuttosto che sia una questione di sensibilità personale e non solo di origini didattiche e culturali, basti pensare ai capolavori di Alberto Meda che è un ingegnere!

Un altro progetto realizzato con FontanaArte è Bowl. Me ne puoi parlare?
Questo appendiabiti e svuotatasche è nato osservando un comune oggetto da un altro punto di vista. E' stato sufficiente ruotare di 90° gradi una ciotola in vetro che avevo in casa per immaginarne una nuova applicazione. Se si prende una qualsiasi ciotola e la si fissa al muro con una vite, immediatamente la percepiamo come un appendiabiti e non più come una ciotola. Si ottiene cioè l'annullamento della sua connotazione originale.
Il bordo rientrante fa sì che la parte bassa dell'oggetto possa assumere la funzione di svuotatasche. L'oggetto è stato poi completato con l'aggiunta di un gancio in acciaio fissato sul retro che rende l'oggetto più completo funzionalmente e sancisce percettivamente la sua appartenenza alla tipologia degli appendiabiti.
Bowl è entrato in produzione nel 2003, ma erano già due anni che l'azienda aveva acquistato il progetto. Da quello che so era rimasto nel cassetto non tanto per problemi di messa a punto del prodotto quanto per problemi logistici con i fornitori.

Uno dei tuoi ultimi progetti è invece un pezzo unico, ma con quattro possibilità d'uso. Tra l'altro un gioco di affascinante ambiguità tra vuoto e pieno, concavo e convesso…
Il portafrutta che ho chiamato Holes è un mio progetto fatto per la mostra a inviti Ea Table Glass svoltasi lo scorso anno a Cà Rezzonico a Venezia. E' un esemplare unico realizzato da un grande maestro muranese, Andrea Zilio. Nella parte superiore è ricavata una ciotola per contenere la frutta matura. Ai lati le due aperture/maniglie rendono accessibile la parte inferiore consentendo di utilizzare anche lo spazio sottostante per riporre la frutta o altro. Le due ciotole di risulta, derivate dal taglio delle aperture, possono essere utilizzate separatamente.

Quanto detto finora dovrebbe contribuire ad evitare di restringere il tuo campo di attività a tematiche ecologiche. E' però vero che l'ecologia - paradigma forte e fecondo per idee "alternative" - è stata alla base dei creativi "spostamenti" del centro di attenzione progettuale di alcuni tuoi lavori del passato. Oggi espliciti moniti e richiami a tematiche ecologiche si ritrovano soprattutto nelle tue Post-card / Cartoline Postali...
Direi che la serie di cartoline, dalla Drinkable Watercard (una cartolina che contiene acqua potabile) alla Bread Card (che contiene una fetta di pane sottovuoto) più che proposte di design ecologico, si possano definire come una provocazione in chiave etica.
Il mio scopo era di fare un tentativo, attraverso il progetto, per portare ai nostri fratelli più poveri del terzo mondo un piccolo aiuto alimentare senza passare attraverso le organizzazioni umanitarie. Ho cominciato a lavorare a questo progetto dopo aver letto sul giornale dei molti eventi mediatici organizzati per raccogliere fondi per i paesi più poveri che vedevano disperdere il ricavato in mille passaggi di mano al punto che il fine iniziale veniva disatteso.
Le post-card sono state il mio piccolo atto di protesta a questo stato di cose.
Cartoline contenenti un piccolo aiuto alimentare che ognuno di noi potesse inviare alle comunità africane imbucandolo semplicemente nella cassetta postale sotto casa.


1 Francesco Zurlo, Della relazione tra strategia e design: note critiche, in Paola Bertola, Ezio Manzini (a cura di), Design Multiverso. Appunti di fenomenologia del design, Edizioni Polidesign, Milano, marzo 2004.


Paolo Ulian
via S.Leonardo, 250
54037 Marina di Massa - Italia
Tel: +39 0585 870039 / Fax: +39 0585 790373
E-mail: drugos@iol.it



OPOS
via Ermenegildo Cantoni, 3
20156 - Milano
Tel: +39 02 33404307 / Fax: +39 02 33404309
www.opos.it

Droog Design
www.droogdesign.nl

FontanaArte
www.fontanaarte.it
Henraux
www.henraux.it
Luminara
www.luminara.it
Droog Design
www.droogdesign.nl
Opposite
www.indarte.it
Ceccotti International
www.ceccotti.it
Sensi&C.
www.sensi.it

SaleFino. Nuovi sapori dal design italiano
Aroundesign - Lorenzo Damiani - JoeVelluto - Paolo Ulian
di JoeVelluto
2004, Abitare Segesta, Milano


Ulteriori informazioni sul volume antologico di IdeaMagazine.net


Da maggio 2011, il testo della presente intervista è disponibile anche in versione cartacea nell'antologia Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net recentemente pubblicata da Franco Angeli nella Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale.
Compresa la presente, nel volume sono raccolte 30 interviste – pubblicate on line dal 2000 al 2010 – che offrono al lettore un interessante resoconto «fenomenologico» su tre ambiti operativi della cultura del progetto assai poco frequentati dalla «comunicazione» sul design: il «nuovo» design italiano, il progetto in Toscana, il design al femminile.

Interviste sul progetto.
Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net

Umberto Rovelli (a cura di)
Franco Angeli - Milano
Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale
1a edizione 2011 (Cod.7.8) | pp. 264
Codice ISBN 13: 9788856836714

 ulteriori informazioni » 



a cura di: 
Umberto Rovelli 


 IM Book 
Da maggio 2011 è disponibile il volume antologico «Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net» in cui è stata inserita questa intervista
 
 Link I
 
 Link II
I.

II.
III.

IV.
V.

VI.
VII.

VIII.
IX.

X.
XI.

XII.
XIII.

XIV.
XV.

XVI.
XVII.

XVIII.
XIX.

XX.
XXI.

XXII.
XXIII.

XXIV.


ha collaborato:
Eneko Aransay Ros




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