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 IL DESIGN O DELL'UTOPIA TEMPERANTE
 Intervista con Giuseppe Furlanis


Mi è capitato recentemente di leggere un interessante libro di Vittoria Franco in cui si affronta il problema della morale dopo la "morte di Dio", dopo la caduta, cioè, dei fondamenti assoluti. L'autrice prefigura uno scenario in cui necessariamente conviveranno più "etiche possibili"... Trasferendo queste considerazioni alla cultura del progetto, quali sono oggi i "progetti possibili' per un design che voglia recuperare l'impegno civile?

Di fronte ad una accelerazione dei processi di trasformazione, al tumultuoso sviluppo della tecnologia, ai rapidi mutamenti sul piano sociale il design vive una fase di impasse, non tanto perché non si progetta più - anzi forse si progetta anche troppo - ma perché si opera in mancanza di una prospettiva ideale di trasformazione. La nostra epoca connotata dalla caduta delle ideologie ha rappresentato inevitabilmente anche una perdita dell'utopia della trasformazione. Sembra quasi che la progettazione debba rincorrere cambiamenti che si sviluppano in modo autonomo, quasi per una sorta di moto inerziale, non più predeterminabili e programmabili.
Io non credo a questa inevitabilità ed è pericoloso che qualcuno sostenga questo. Così penso che porsi oggi il problema di un etica del progetto sia innanzitutto porsi il problema dell'utopia, di una utopia della trasformazione.
Mi spiego meglio. Ritengo che il concetto di utopia in questa fine di millennio sia sostanzialmente diverso da quello che ha caratterizzato l'inizio del secolo: l'utopia dei primi del Novecento era fondata sull'idea di grandi progetti di trasformazione, spesso traumatici, sostanzialmente rivoluzionari. Oggi, invece, il processo di trasformazione collegato all'utopia deve fondarsi sulla ricostruzione di sistemi di equilibrio. Anzi, forse, si può affermare che la vera rivoluzione è proprio costruire l'equilibrio.
In una società, come quella attuale, che vive una sorta di schizofrenia perché da un lato è evidente la volontà di costruire sistemi di integrazione tra uomo e natura, tra i diversi popoli, tra culture lontane, dall'altro verifichiamo una crescente tendenza alla distinzione, alla separazione, la sfida è realizzare un equilibrio tra i progetti di sviluppo e i problemi di natura ambientale, tra paesi poveri e ricchi, tra i progressi della tecnica e il mondo del lavoro, non in una visione "buonista", oggi tanto di moda, ma come possibile ed irrinunciabile sviluppo della società.
In questo l'unico, reale, progetto di trasformazione è oggi un progetto di utopia. Un'utopia che altrove ho definito "temperante".
Siamo abituati a considerare da sempre questi due termini - utopia e temperanza - come antitetici: l'utopia contiene in sé il senso di dinamicità e di trasformazione, per alcuni versi anche irruenta, della realtà; la temperanza è il fermarsi per meditare, per riflettere. Ecco io ritengo che oggi dobbiamo porci l'obiettivo di un'utopia temperante come reazione ad un mondo in cui tutto appare accelerato... Dobbiamo avere il tempo di sederci per pensare... l'uomo di progresso è l'uomo che pensa, che non accelera.
Così la progettazione non è l'inseguimento di problemi che sembrano correre troppo veloci ma il fermarci a riflettere sull'essenza stessa di questi problemi, perché solo ponendoci l'obiettivo di un modello di trasformazione riusciamo anche a dare senso al nostro progetto...

Umberto Eco nei suoi Cinque scritti morali, muovendo dal concetto di etiche possibili, rileva come oggi la difficoltà nel porre il problema della morale sia soprattutto quella di trovare un punto comune a queste etiche. Nasce il "concetto di altro in noi", come base, punto di partenza del il nostro operare... "altro" come vicino ma anche come natura, pianeta in cui viviamo, generazioni future...
Condivido pienamente queste considerazioni di Eco che sono alla base anche della mia idea di scuola. Da quando sono all'ISIA ho cercato di porre il concetto di confronto rispetto ai problemi, ma anche tra culture diverse, come elemento caratterizzante.
Se l'inizio del secolo è stato connotato da una cultura della diversità intesa, non come fatto di ricchezza, accrescimento creativo, ma come fattore di differenziazione, di egoistica difesa del proprio essere, il grande sforzo che l'uomo di fine secolo deve affrontare è quello di far diventare il confronto legato alle diversità come elemento di maggior ricchezza per la propria crescita culturale.
Penso che ciò faccia parte di quella concezione dell'utopia cui prima mi riferivo: l'utopia dell'equilibrio è anche l'utopia di un confronto in equilibrio, dove non esiste un dominatore o un dominante, perché quando questi sono presenti difficilmente il confronto porta alla ricchezza ma semmai allo sfruttamento. Ritengo che per lo sviluppo dell'uomo questo sia un aspetto realmente fondamentale.
E qui mi ricollego alle problematiche specifiche di una scuola di progettazione. Siamo usciti da un'utopia, quella del Moderno, che ha caratterizzato la prima metà del secolo, basata su una sorta di internazionalizzazione della cultura come primo passo verso un mondo più giusto, verso la fine dei conflitti tra i popoli. Un atteggiamento rischioso, in quanto non lontano dal pericolo di una dominanza dell'Occidente nei confronti delle altre culture. Oggi abbiamo invece compreso che dalla universalità può venire ricchezza, e che l'unificazione crea una sorta di asfissia. Tutto ciò sta alla base del mio modo di intendere una scuola di progettazione il cui principale scopo è quello di insegnare agli studenti ad elaborare una propria cultura del progetto che è sì tecnica, ma anche fondata su una capacità critica, su uno slancio ideale. La scuola, affrontando queste tematiche relative alla cultura della trasformazione, non può avere un approccio di tipo dottrinale perché verrebbe a mancare quell'aspetto di cui parlavo prima, fondato sulla ricchezza del confronto. Di qui l'invito a docenti che hanno culture diverse, modi antitetici di intendere la progettazione, il rapporto con l'oggetto, l'ambiente, la realtà; il confronto con problematiche lontane dal mondo degli studenti; la riflessione su prodotti espressione della ricchezza di culture diverse. Per una scuola come luogo in cui ogni persona può scoprire una varietà di dibattito che esiste realmente anche al di fuori, nel mondo, ma che non è avvertita perché offuscata dai mezzi di comunicazione che, riducendo il confronto, portano inevitabilmente ad un forte appiattimento.

Come giustamente notato, tra i progetti possibili, quello della sfida dello sviluppo sostenibile appare estremamente urgente. La grande difficoltà per la cultura del design è che se vogliamo ottenere risultati concreti e non semplici palliativi non si tratta tanto di ragionare in termini di prodotto ma soprattutto di soddisfacimento di bisogni. Si pensi al caso dell'imballaggio, che non deve essere solo analizzato e risolto nell'ottica della riciclabilità ma affrontando il problema a monte, cercando di capire come sia possibile trasferire quel determinato prodotto da A a B. Anche sul piano meramente didattico non è facile...
E' vero che la cultura del progetto sta andando verso una fase più evoluta. Da tempo l'ISIA, con personaggi quale Vittorio Bozzoli e Jonathan de Pas, ha affrontato il problema dell'ecocompatibilità puntando sulle caratteristiche del prodotto: si parlava di risparmio energetico, di utilizzo di materiali puliti, di ricorso a cicli produttivi non inquinanti, di disassemblaggio, di riduzione delle spese di trasporto...
Il fatto è che oggi abbiamo verificato che questi aspetti, giustamente considerati, non hanno però una reale incidenza sull'ambiente. Faccio un esempio banale: Firenze è una città invivibile perché ha un tasso di inquinamento estremamente elevato che ci obbliga, più volte l'anno, a bloccare le auto non catalitiche... Pensare che, sostanzialmente, il problema è risolvibile con la marmitta catalitica è profondamente sbagliato, perché questa comunque determina emissioni di gas e le auto continuano a rendere invivibile la città per la mancanza di parcheggi, per i frequenti ingorghi... Ed ancora: non è assolutamente vero che utilizzando per un prodotto materiale plastico riciclabile - penso ad alcune campagne promozionali che fanno leva proprio su questo aspetto - riesco a rendere la sua vita infinita perché il materiale nelle fasi di riciclaggio inevitabilmente degrada e quindi devo utilizzarlo per sottoprodotti... senza considerare l'impatto dei processi adottati...
In questo senso l'ecologia maturata in questi anni è fortemente deviante se non addirittura pericolosa. Siamo di fronte a surrogati che non vanno assolutamente ad intaccare quello che è il problema centrale dell'ecocompatibilità. Così facendo, infatti, si rimane infatti sempre all'interno di una logica di forte accelerazione della dinamica del consumo, anzi, paradossalmente, il riciclo tende ancora di più ad accelerare tale processo. Questo tipo di logica - e non dico che il riciclo del prodotto sia un fatto completamente negativo - ha senso in una fase di transizione rispetto all'ecologia, quale quella che stiamo vivendo, ma pensare che questo sia il sistema per risolvere in assoluto il problema è profondamente sbagliato.
Allora, tornando alla domanda, nel costruire una nuova idea di prodotto maggiormente compatibile con l'ambiente il primo nucleo da mettere in crisi è la logica attuale del sistema del consumo. Una strada difficile in quanto la concorrenza di mercato si basa proprio sulla riduzione dei prezzi e dunque della qualità e della durata del prodotto. Intervenire sulla logica del consumo significa ribaltare questo modo di pensare e di operare.
L'elemento principale attraverso il quale è possibile sviluppare una nuova cultura ecologica, dunque, non è tanto legato al passaggio dall'oggetto al servizio ma alla costruzione di una diffusa ecologia della mente. Viviamo una sorta di schizofrenia: da un lato emerge una volontà di educazione all'ecologia che è insegnata nelle scuole dove si pratica la raccolta differenziata dei prodotti, si organizzano campagne pubblicitarie, dall'altro abbiamo una cultura, rispetto allo sviluppo urbano e al prodotto, che è sostanzialmente all'opposto in cui il benessere è misurato sulla quantità di beni posseduti.
E nel proporre questa nuova prospettiva occorre non dimenticare mai che il problema dell'ambiente rientra nel tema, ben più ampio, del rispetto tra gli uomini su cui già ci siamo soffermati.
Il passaggio dal prodotto al servizio è indubbiamente una fase più evoluta di quella basata esclusivamente sul riciclo ma è ancora fondata su una logica del consumo che rappresenta l'elemento principale di crisi.
Il problema centrale è dunque quello di costruire una reale cultura ecologica che può nascere solo se si opera nella speranza di un mondo diverso dal nostro e, rispetto al nostro, migliore, basato su nuovi livelli di equilibrio.
I segnali di un'inversione di tendenza ci sono: penso all'interesse dei giovani - ho molta fiducia nelle ultime generazioni altrimenti non lavorerei nella scuola - nei confronti del volontariato e questo al di là dell'influenza di una cultura, quale quella mediatica, che non spinge al confronto ma tende a mitizzare il successo, il profitto.
Per questo, caparbiamente e nonostante tutto, continuo ad avere fiducia.

A fianco dell'attività professionale svolta nell'ambito della progettazione e consulenza industriale, Giuseppe Furlanis si interessa di "pedagogia del progetto" attraverso attività di insegnamento, pubblicazioni di articoli e saggi, seminari e conferenze in scuole ed università italiane ed estere. Nel 1985 inizia l'attività di "esperto" in design del Dipartimento di Cooperazione e Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri. Promuove mostre e convegni in diversi paesi: svolge attivita' didattica e di coordinamento all'Art and Design Centre di La Valletta e per il centro di Disegno Industriale di Montevideo. E' Direttore dell'I.S.I.A. di Firenze.


Ulteriori informazioni sul volume antologico di IdeaMagazine.net


Da maggio 2011, il testo della presente intervista è disponibile anche in versione cartacea nell'antologia Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net recentemente pubblicata da Franco Angeli nella Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale.
Compresa la presente, nel volume sono raccolte 30 interviste – pubblicate on line dal 2000 al 2010 – che offrono al lettore un interessante resoconto «fenomenologico» su tre ambiti operativi della cultura del progetto assai poco frequentati dalla «comunicazione» sul design: il «nuovo» design italiano, il progetto in Toscana, il design al femminile.

Interviste sul progetto.
Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net

Umberto Rovelli (a cura di)
Franco Angeli - Milano
Collana ADI - Associazione per il Disegno Industriale
1a edizione 2011 (Cod.7.8) | pp. 264
Codice ISBN 13: 9788856836714

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Testo:
Giuseppe Lotti

 IM Book 
Da maggio 2011 è disponibile il volume antologico «Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net» in cui è stata inserita questa intervista
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX.
x.


Ha collaborato:
Elena Granchi
Sonia Morini

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